*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 76908 *** SUL LIBRO DEGLI ULTIMI CASI DI ROMAGNA E SULLE SPERANZE D’ITALIA FONDATE SU CARLO ALBERTO PAROLE A Massimo d’Azeglio D’UN SUO COMPATRIOTTA. PARIGI. MAD. LACOMBE, STRADA D’ENGHIEN N.º 12. 1846. A MASSIMO D’AZEGLIO. Era lunga pezza, che aveva in animo di dirigervi qualche parola, ma più ragioni inutili a dirsi mi tennero sempre fin’ora in forse, e non ultima fra esse si fu la stima che altissima io portai ognora a voi tanto come a letterato e pittore, quanto come a uomo e cittadino d’Italia: cosicchè fino al giorno d’oggi io mi condussi senza mandar ad affetto il proposto mio, volendo anche illudermi per qualche tempo, por fede nelle vostre parole e dividere con voi e coi vostri seguaci quelle speranze che andavate rinfrescando nei nostri fratelli, ed aspettare insomma che finalmente la lima del più acuto rimorso avesse coll’opra continua di venticinque anni appianato, e corroso il callo che ad ogni magnanimo senso un Principe aveva fatto; Principe che mentre i natali, la patria, le condizioni dei tempi, tutto chiamavalo a grandezza, alla rigenerazione d’Italia, prefferse vigliacco infangarsi nella massima delle viltà, e macchiarsi della più schifosa fra le infamie. Di qui potrete già addarvi, che io non vi intendo parlare nè di arti nè di lettere, sia perchè troppo difficile e malagevole si è il comparire in un’arte o scienza qualsiasi edotto discorrendo con persone in esse dottissime, chè ad altri per quanto io mi sappia non è mai incontrato quello che accadde all’immortale Cornellie, il quale poetando comparve valoroso guerriero al gran Turrena; nè io d’altronde vorrei arrischiarmi di guadagnar la taccia che ebbe quegli il quale fu ardito d’entrare di guerra al cospetto d’Annibale. Altra adunque più importante causa mi induce a dar di piglio alla penna, ed a distendervi questo opuscolo, causa d’alta levatura, perchè si riferisce al bene del nostro paese, alla futura sorte della nostra nazione; e siete voi istesso che non solo me ne avete in mente destato l’idea, ma anzi mi vi avete costretto, vuoi colle pur troppo bugiarde speranze che vi affaticavate in far riporre dagli italiani nel braccio di Carlo Alberto, vuoi col vostro libretto che ha per titolo: _Degli ultimi Casi di Romagna_, dove insieme a molte buone e belle verità avete pur lasciato, scusate alla mia schiettezza, sfuggire dalla vostra penna non poche corbellerie, dalle quali pensai prendere le mosse, appellando col nome di _osservazioni_ i capitoli in cui di esse sarò per entrarvi. OSSERVAZIONE I. L’epoca de’ tiranni è molto lontana da noi. _Pag._ 5. MASSIMO D’AZEGLIO. Quantunque io mi convenga pienamente su di alcuni punti del vostro scritto, pure non è che io non abbia a tenere per assurde varie sentenze, in cui vi siete lasciato forse dalla poca vostra esperienza in siffatte cose trascinare, il perchè non è che io supponga, sono anzi fermamente persuaso che tutto quello voi avete detto, l’avete detto di vera ed intima convinzione; chè se ciò non fosse neppur d’una parola in risposta vi crederei degno. Secondo le vostre viste l’epoca dei _Tiranni_ è molto lontana dai nostri giorni, anzi a pagina quinta del vostro libro non temete di asserire che vuolsi considerare una _Fanciullaggine Alfieriana_ il dire tirannici gl’attuali governi d’Italia; ma dalla maggior parte degli Italiani, ossia dai veri Italiani si pensa ben altrimenti, credetelo, onde la sentenza che voi lanciate contro di chi da voi dissente potriasi in mirabile modo ritorcere su di voi, e su chi infatuato del vostro nome giura ciecamente nelle vostre parole. L’esempio di Papa Gregorio; del Duca di Modena, del Re di Napoli, e di Carlo Alberto parmi debba essere più che bastante a convincere chiunque della verità. È vero che essi più non commettono le follie e le stravaganze che molte volte contro gli antichi oppressori della nostra patria destavano più la compassione che non l’odio, più il disprezzo che non la vendetta, ma è vero altresì che essi si reggono sul soglio con un dispotismo assoluto, il quale basta di per se per caratterizzare tiranno qualsiasi regnante; è vero altresì che le più inaudite prepotenze furono nei costoro stati commesse e si commettono tuttavia, che in spessissime occasioni il sospetto solo, il timore di qualche sinistro, una pretesa prova di morale induzione loro fu ragione sufficiente per farli appigliare ai più vergognosi e prepotenti partiti, per apportare la ruina a delle intiere famiglie, per cacciare individui innocenti in esiglio; o nei ceppi senza che processo di sorta venisse su d’essi instituito ad esaminarne la colpa, anzi senza che talvolta potessero perfino penetrare tampoco la cagione del loro arresto, delle loro persecuzioni, e non sono adunque costoro Tiranni? _È fanciullaggine Alfierana_ il crederli tali mentre al primo rumore, alla più breve causa brandiscono la mannaja? Oh Massimo mio! dove diamine avevate la testa quando ciò scrivevate? Perchè non informarvi esattamente prima di ciò che intendevate communicarci? Perchè non interrogarne gli individui del ceto infimo e medio, invece di chiederne lingua ai compri letterati ed artisti, ai nobili che non ponno soffrire l’agonia della loro aristocrazia, che solo ancora in Piemonte minaccia vita e trionfo? sì perchè non addentrarvi nei misteri della società, e studiarne le piaghe che l’avviliscono, immalvagiscono, e la rendono inatta perfino al giusto lamento, all’indignazione, al solo pensiero, non che all’intrapresa della più bella fra le vendette? Se voi ciò aveste fatto vi sareste facilmente convinto essere assai più crudele la tirannia dei nostri Principi attualmente regnanti, che non era quella degli antichi, tanto più pensando ai tempi in che viviamo, e facendone il paraggio colle passate età. Gli antichi nostri padroni per attutarsi nel loro potere, per rendere temuto il loro nome apertamente calpestavano le leggi umane e divine, spargevano il sangue dei loro sudditi; i Principi del giorno d’oggi fingono di rispettare l’opinione pubblica, fingono d’ignorare tutto, mentre tutto sanno quanto i loro ministri fanno di prepotente, di tirannico, e d’infame e per ritardare sempre più l’ora della ruina del loro dispotismo, che veggono fatalmente avvicinarsi, non solo ricorrono alla scure come i loro maggiori, ma come _Polinice_ appo il Tragedo Senecca si mostrano disposti di gridare quando che sia: _io brucerei e padre e moglie e figliuoli_, piuttosto d’uniformarsi alle imperiose esigenze del secolo, e discendere alle riforme volute dall’incivilimento. E voi cotestoro credete pazzia nominare tiranni? almeno non aveste lanciato qual sarcasmo contro quella grande anima del Tragico Italiano! che tutti dovremmo imitare non fosse in altro che nell’intenso desiderio d’esser utile alla patria, giacchè niuno più del fiero astigiano dimostrò mai d’intendere l’animo e la mano con più fervore e costanza alla causa della nostra indipendenza nazionale. Onde se qualche goccia di sangue italiano ci scorre anche nelle vene, se qualche fibra non guasta dal cancro della viltà anco si agita nel nostro animo alla nuova di qualche aggravamento, alla vista che ogni giorno più va crescendo la nostra schiavitù, e lo stesso pensiero, lo stesso affetto vorrebbesi, non che inceppato, servo, credetelo pure, lo dobbiamo in gran parte alle scritture di quell’immortale, ai forti e maschi concetti, in cui si apriva quella mente, alle energiche, libere ed infocate espressioni in cui irrumpeva quell’anima. Nè con ciò credete io vi voglia far da predicatore, chè solo intendo di rendervi avvertito che se mai conviene andar molto a rilento in affibbiarsi la giornea di giudici su gli altri, è senza dubbio quando abbiamo a fare con chi su noi giganteggia, su chi fu destinato a spargere torrenti di luce immortale sul cammino della sua vita, come Alfieri, simile a cui se uno per paese nella nostra penisola presentemente vi fosse per tenacità di volere, di desiderio, o di operare, non staremmo gran fatto a crollare quel giogo che da tanto tempo pesa sul nostro collo, ed a cui un gran numero di noi così si mostrano assuefatti da potere a ragione essere paragonati a que’ giumenti che più non paiono sapere camminare se non gravita loro sul dorso la solita soma. OSSERVAZIONE II. Non vedo, che a chi ho osato stampare liberamente le sue opinioni sul presente e sul futuro stato d’Italia sia stato torto un capello.... _Pag._ 4. MASSIMO D’AZEGLIO. Siano pure, come voi e l’aristocratico per eccellenza vostro Balbo volete, i nostri Signori persone _di temperato costume ed illuminate_, cosa dicerto la quale non vi si potrebbe menar buona, qualora un colpo d’occhio si desse alla loro vita pubblica, o privata, ma niuno senza dubbio mai troverete, il quale sia sì nuovo delle cose governative dei varii stati del nostro paese, e sì baggèo da credere all’opinione vostra, siccome a detto infallibile, _che cioè il più gran rischio a cui uno possa farsi incontro per dire schiettamente quella verità che a tali Governanti non potrà giammai andar a sangue, sia la perdita degl’impieghi_, mentre non v’ha villaggio sto per dire della nostra penisola, che non porga la testimonianza di rigorosissime e barbare provvidenze prese non che contro chi fu conosciuto autore di simili scritti, contro a coloro i quali furono intesi parlare semplicemente di patria indipendenza, o furono sospettati d’appartenere a qualche società di liberali, o creduti divulgatori o possessori trovati di libri politici, di cui proibita se ne era l’introduzione. E voi ci venite dicendo che chiunque può scrivere quanto gli pare e piace sugli abusi, sugli infami trattamenti, e pessimi modi di procedere dei governi senza correr grande pericolo? Niuno vi niegherà che i Principi nostri abbiano dimostro qualche volta di non ardire affrontare direttamente la pubblica opinione, di trovarsi in forte imbarazzo nel dover prendere misure di rigore contro qualcuno che o cogli scritti o colla condotta li inquietasse; allora nelle loro determinazioni si ingegnarono di parere moderati, giusti, ed anche generosi, ma voi non mi potrete nemmanco contendere, che essi solamente ciò hanno fatto, fanno, e faranno in quelle occasioni, che temono un altro procedere loro riuscirebbe di pericolo e danno maggiore, cioè quando hanno che fare con persone di gran fama, di gran popolarità; il perchè quand’uno gode la simpatia, la stima e la venerazione della moltitudine facilmente trascina i più dei concittadini nel suo partito, e li obbliga a congioire e a compatire secolui nelle prospere e nelle tristi venture, ed al punto dal farci avere in non cale qualsiasi sagrificio quando si trattasse di salvare il loro capo, di arrivare qualche grande intento. In questi casi torna più a conto dei nostri Tiranni far orecchie da mercanti, far le finte di non vedere o di non sapere, addimostrarsi moderati ed anche generosi, e nell’istesso tempo guardare in segreto modo di rimediare alla meglio la cosa, e trattandosi di scritti di troncarne ogni via alla pubblicità. Che stranezza sarebbe infatti, che il popolo vedendo agire il governo con rigore e crudeltà contro di un qualche suo rappresentante, si levasse a rumore, e facessegli pagare lo scotto coll’ultima di tutte le antecedenti sue prepotenze? Così sembrami non dobbiate far le maraviglie come niuno con voi pensi che l’esempio di Niccolini libero in Toscana, e di Balbo libero in Piemonte possa riprodursi, ogni qualvolta uno scrittore osasse alzare alta e libera la sua voce contro il proprio governo, tanto più poi che riguardo al Balbo ci sarebbero molte cose a dire. Non sapete voi che egli appartiene a quel ceto di cui qualsiasi azione non può essere che buona, e lodevole? Non sapete che egli è di quel legno che in Piemonte è Sacro, e guai a chi lo crede infetto, ovvero lo tocca? Di più meditate le _sue speranze_, e poi ditemi qual utile si sia ottenuto o si otterrà da un libro che ci viene a predicare impossibile la nostra redenzione tanto, che sta in piedi l’impero ottomano, mentre offuscata, e spenta non è l’odrisia luna? Credete voi che la pensi in fatto della sorte futura della nostra Italia medesimamente che voi, uno che fa partire le nostre speranze dal Turco? Vi ingannereste a gran partito se ciò fosse, io l’ho studiato più davvicino di voi, penetrai più intimamente nell’animo suo, e vi ripeto che egli è troppo aristocratico, è troppo ligio allo splendore della sua casta, per essere davvero amante dell’indipendenza della nostra nazione; aristocrazia della nobiltà piemontese, ed indipendenza italiana son due contrarii, son due forze, di cui una trionfando, necessariamente deve rompersi e spegnersi l’altra: pochi si sentono capaci di resistere all’ambizione e loro basta l’animo come a voi di rinunciare a tanto privilegio di schiatta. Ma veniamo di nuovo alle conseguenze che si deve aspettare chiunque prenda a scrivere la verità nel nostro paese: fino a qual punto si potrebbe istendere la massima moderazione dei nostri governi verso questi tali? Fino a lasciarli salvi dalla scure, sciolti dai ceppi, liberi dal carcere, ma intanto sarebbero essi fatti spiare attentamente nei loro passi, notati e riferiti i loro discorsi, e spesso contraffatti per modo che impossibile loro saria riconoscersi ancora per autori, e registrati andrebbero perfino i nomi delle persone con cui d’allora in poi usassero famigliarmente, con cui parlassero per via, e a che perfino facessero di saluto. Talmente che spesse fiate la loro moderazione qualora avesse luogo diventerebbe assai più funesta e nociva alla causa comune, che non può essere nemmeno il più fiero rigore, la più ferrea tirannide. Il perchè coll’autore dello scritto proibito andrebbero compromessi tutti quegli altri che o l’attorniano per vanità di trattare con un grand’uomo, o gli sono amici di cuore, o ne sono caldi ammiratori dell’ingegno, del carattere, ovvero l’avvicinano per avere consigli ed istruzione; la qual cosa potrà parere esagerata e falsa a chi non si curò di studiare addentro ai nostri costumi, a chi giova illudersi per condurre avanti la vita, a chi si lascia allucinare da un’atto di affettata urbanità, ed intrinsichezza, non certo a me addottrinato in ciò dalla esperienza. E poichè ho incominciato deggio assicurarvi che più d’una volta mi ebbi a sentire all’orecchio da miei superiori di carica: _se volete andare innanzi: se volete conservarvi la grazia del ministro, del sovrano: se volete anco tenere l’impiego: se volete evitare il rischio di venire congedato, o lasciato fermo senza promozioni: dovete frequentare altre compagnie, lasciare la gloria di appartenere alla classe degli spiriti forti, lasciare insomma lettere e letterati, ovvero occuparvi in cose che possano guadagnarvi il favore del sovrano, come sarebbe dire, in cose di religione, di aggradimento di chi vi fece benefizio nel darvi impiego e gradi in società_. Nè ciò tanto a me è che sia incontrato, ma di mia certa scienza a parecchi de’ miei conoscenti, ed a due miei intimi amici, i quali non conoscendosi per nulla colpevoli non vollero mutare tenore di vita a tali avvertimenti, ovvero usare più circospezione e prudenza, e quando si presentarono per ricevere dal nostro governo tratti di mera giustizia si dovettero sentire gli uni a dire, che il Re non permetteva che si avessero per buone le loro ragioni quantunque paressero giuste, e si prendesse interesse di sorta per allora in loro utile stante la loro caparbietà, e la loro ostinatezza; e gli altri vedersi minacciati, e tolti anche da impiego, mandati a viaggiare od in esiglio quando non ebbero bracci possenti che li sostenessero, o belle donne che li accomandassero, e corressero ad intercedere per loro, perchè (se molto altrove) in Piemonte la protezione di una bella Signora può più che non quella dell’oro eziandio presso i grandi dello stato, e controbilancia perfettamente quella dei Gesuiti. Ma a quest’ora neppure a voi ciò può parere strano, o Massimo, perchè se per lo addietro non anco avevate ciò esperimentato, l’avete non è molto dovuto toccare con mano, dir voglio quando cacciato di Firenze vi siete restituito in patria, dove dopo il breve clamore d’un entusiasmo, che la gioventù subalpina, fra cui annoverate me eziandio, dimostrò pel autore dell’_Ettore Fieramosca_, pel pittore di cui ammirato aveva le sublimi creazioni già dei più anni, per l’illustre loro Compatriota insomma, vedeste con vostro dolore e sorpresa, tanto vale che il confessiate siccome l’avete dimostrato nel sembiante, cadere vittima i vostri partitanti della sorveglianza la più fina, e della persecuzione dell’ispettore Generale di Polizia, e vi trovaste abbandonato pressochè da tutti i vostri più famigliari ed intimi, i quali erano stati consigliati a lasciarvi, e non pochi minacciati, se continuato avessero ad accostarvi, fra cui non voglionsi tacere alcune distinte famiglie che pur vi stimano, e si riputavano fortunate di accogliervi nel loro seno a serali conversazioni, e furono costrette ad ismettere di tenere le loro adunanze per non incontrare il mal umore del Conte Lazzari ricevendovi tuttavia dietro consiglio dato loro da lui in persona, od in bella maniera da lui fatto loro per via d’un terzo pervenire. Ed il vostro libro che voi credevate di poter introdurre quando che sia e spargere fra le mani dei vostri compaesani, ditemi di grazia ebbe forse una sorte migliore di quella, che fu toccata ai vostri partitanti? A migliaja mi scrivevano da varie città della Penisola esserne entrate le copie in Piemonte anzi nella capitale, ma invece quaranta persone, dalle quali nulla potrà sperare giammai l’Italia, nulla ponno temere i nostri tiranni, avevano ottenuto col permesso del ministro di Polizia di ritirarne una copia per uno con patto, anzi con sacramento di non la prestare o lasciar leggere ad altri, ovvero di tenerla scrupolosamente sotto chiave, e dopo qualche tempo anche queste in parte vennero ritirate per ordine di S. Maestà, da cui voi assicuravate avreste avuto immancabilmente coll’approvazione dell’opera l’assenso ad una illimitata introduzione. Chi mai avria detto, che un uomo di vostra età, con tante attinenze ed appoggi potesse venire ingannato nella sua aspettazione sì compiutamente? Io istesso che non conto la metà dei vostri anni, e che non sono dei più difficili a credere, e prestar fiducia, non avrei mai nemmeno per sogno preso un marrone di tal natura, e tornare in conseguenza più di danno che non di vantaggio a miei compaesani. Ma se per avventura queste cose non fossero sufficienti a convincervi del contrario della vostra asserzione, potreste leggermente assicurarvi meglio dei riguardi che il nostro Re ha pegli scrittori, i quali anche dopo una terribile falcidiatura della censura ottenuta l’approvazione, osarono pubblicare cose che in qualche maniera potevano muovere il mal’umore del governo; se di ciò interrogaste l’Avvocato _Angelo Brofferio_, il sig. _Edoardo Soffietti_, il sig. _Delpino_, il sig. _Tallone_, ed il sig. _Lorenzo Giribaldi_, da essi intendereste come sia facilissima cosa anche dopo l’approvazione, locchè è assai più ingiusto e barbaro, l’essere invitato ad una conferenza coll’ispettore di Polizia, e l’essere detenuto in arresto o in cittadella, od al palazzo di piazza Castello per uno scrittore, non dico ardito al punto da tentare colla penna e colla voce di illuminare il popolo, e farlo entrare in se, ma solo che non sia venduto, o che procuri a poco a poco di mettere sotto occhio la necessità delle più indispensabili riforme, che i governanti si ostinano a niegarci quanto più veggono avvicinarsi il tempo che a ciò saranno costretti contro loro volontà. Figuratevi quanto non sarebbe loro per accadere qualora la penna tingessero nel fiele, e togliessero a descrivere e disvelare i misteri della nostra società, a metterci sottocchio qualche quadro dell’intollerabilissima nobiltà piemontese, dei raggiri, dell’impostura, e ridicolezza di molti impiegati che tengono il maneggio delle cose e le conseguenze deplorabili della _via economica_ infatto di giustizia tanto accetta a Carlo Alberto, ed agli altri sovrani Italiani! In tal caso io sono d’opinione che non solo ci vorrebbe che ogni scrittore appartenesse ad una famiglia per affumicati diplomi, per resi servigi, per ricchezza e potenza di parentado ben visa dal governo, come si è appunto la vostra, ma sì ancora farebbe di mestieri la precauzione di svignarsela prima della pubblicazione delle loro opere, lungi dalla patria per non vedere tali puntelli a crollare, e dovere o presto o tardi essere fatti segni alla più accanita vendetta di chi non sa, non vuole, e non potrebbe mai perdonare, il perchè il perdono dipende da troppi affine possa liberamente nel nostro paese essere adottato, e d’altronde saria pressochè per tal gente un volersi ruinare da se, un volere rinunciare al loro passato, presente, e futuro, al qual punto come venissero in pensiero di discendere incomincerebbero, non v’ha dubbio, dalle dovute mutazioni di reggimento. Ma a che pro io mi spargo in cose, di cui al presente momento al pari di me sarete già forse convinto? Di fatto quelle maraviglie che dal Sovrano nostro, dai varii ministri, dai grandi della piccola nostra Corte, da ogni parte insomma vi venivano mosse intorno al fermare più a lungo la vostra dimora in Torino, quell’offerirvi incarichi per lontani paesi, ec. ec. non erano segni manifesti che il vostro soggiorno li inquietava, non erano taciti consigli perchè faceste la vostra valigia e partiste per qualche altra terra? Onde anche voi malgrado il sostegno della vostra fama, del vostro merito, della vostra famiglia che ha poderose branche, e dei vostri amici più possenti che schietti, temo forte abbiate presto a ricevere ordini in vece di esortazioni, e se stiamo a quanto si va ascoltando per via di Pò e di Dora, difficilmente alla comparsa di questa mia tontera vi potrò rivedere a percorrere questi nostri nuovi lastricati, ed udire la vostra parola che sebbene erronea perchè dettata spesso da mente illusionata, pure sempre interessante, perchè sincera e generosa.[1] Del resto riguardo a quanto voi diceste sul piccolo rischio che uno correrebbe nella nostra Italia prendendo a parlare delle universali tendenze della Società, e delle speranze del popolo Italiano, voglio ancora osservarvi qualche cosettina, ed è che non solo nel nostro beatissimo paese ciò è impossibile senza i più gravi pericoli, ma anzi appare poco meno che delitto agli occhi sovrani l’essere letterato, quando non siasi disposti a far l’apologia dell’augustissima Casa di Savoya, tanta è la tema che si ha, noi propaghiamo la conoscenza dell’onta, e della abbiezione nostra, il dovere di cittadino verso di noi e dei nostri discendenti, e della patria! Ne è chiara pruova il letto di Procuste in cui vengono messi i componimenti letterarii d’ogni genere, ma sopra tutto quelli drammatici, i quali per l’appunto sarebbero i più acconci a sussidiare la opera nostra, a giovare alla rigenerazione del paese; che nulla più che la commedia può educare il popolo a virtù, destarlo dallo stato di ignavia, di sonnolenza e di viltà, d’incitarlo a cose grandi, siccome nulla più che la tragedia è atta ad ammansare la ferocia dei tirannelli, a farci concepire contro d’essi odio implacabile ed eterno, ed a recare loro spavento col pensiero del nostro risvegliamento, quando davvero gli scrittori intendano gli obblighi loro, ed in ogni maniera s’adoperino per soddisfarli; insomma quando il concetto nazionale, come sempre dovrebbe essere, fosse il più vagheggiato nella lor mente, il più idolatrato nel loro core, e piuttosto ei si sentissero atti a gettare via la penna, che non ad obbliarlo. In Piemonte principalmente per potere far di pubblica ragione per via delle stampe o per via delle scene una commedia, od una tragedia, converrebbe dipingere nella prima i costumi di seicento anni fa, nella seconda sviluppare quelle passioni che più non possono riuscire di lezione in modo alcuno ai nostri potentati, e promovere il nostro utile, perchè anche nelle male cose i nostri signorotti sono infinitamente inferiori alli antichi, di cui i più anche nelle più turpi azioni addimostravano alle volte eroismo e grandezza, a differenza dei nostri che piccolissimi in tutto si addimostrano; sì per battere la carriera del tragico è d’uopo da noi mutare i principii costituenti il vero dramma italiano, è d’uopo darci uno scopo affatto opposto, cioè infame siccome fece ultimamente Domenico Cappellina il quale nel suo _Cola da Rienzo_ viene a predicarci la viltà e l’ignavia, e a tentar di metterci in uggia la più generosa, la più sublime, la più libera delle virtù. Interrogate il Nota, il Marenco, insomma tutti coloro che si diedero a coltivare questo ramo della nostra letteratura, ed ispecie i giovani letterati che valorosamente di continuo scendono in sì difficile palestra, a rinnovare le pruove, vi diranno quanto si struggano e giorno e notte non per incarnare il loro pensiero, ma per poterlo adombrare tampoco alla lontana, per cui tutti i tentativi riescono nulli, per cui non hassi teatro italiano, per cui Nota, Corelli, Marenco non poterono ancora emulare le glorie di Goldoni e d’Alfieri, e vendicarci dalle giuste rampogne che tutto giorno ci movono contro i nostri più grandi nemici, i Francesi. OSSERVAZIONE III. Si merita l’indipendenza colla virtù degli opportuni, de’ lunghi, de’ grandi sagrifizi... _Pag._ 7. MASSIMO D’AZEGLIO. Nè meno di queste sentenze si presenta bizarra, strana, per non dire ridicola l’interrogazione, in cui a pagina settima usciste colle seguenti parole: _noi Italiani possiamo forse alzar la fronte, metterci la mano al petto e dire a Dio ed agli uomini: ci siamo meritato la nostra indipendenza?_ Per dio! se non ce la siamo meritata noi, quale delle nazioni antiche e moderne mai se la meritò? quale delle nazioni prostrate già risorte o anco oppresse da schiavitù mai col sangue e con ogni maniera di sagrificii, di umiliazioni, d’angustie, di dolori, e di mali ha espiato le colpe sue antiche più della nostra? Sì riandate la storia, e ditemi se altra terra può sostenere il confronto anche da lungi colla nostra? se altro popolo ha più diritti per risorgere a grandezza, a libertà del nostro? Se altra nazione pel clima, pel suolo, per l’indole generosa del suo animo, per legge eterna di natura, e del cielo, per le sue passate glorie è chiamata più della nostra a tenere lo scettro di supremazia sulle altre, e se maggiore servitù, maggiore abbiezione, più lagrimevole stato del nostro mai si può dare? Non ha sofferto abbastanza l’Italia!!!... questa nazione che fino dalla caduta del colosso dell’impero romano, bersagliata dalla fortuna, restata in possesso dei barbari i quali si strappavano l’un l’altro, e si dividevano i brani del manto dei Cesari, quindi caduta in preda dei Saraceni fu sempre afflitta, combattuta, manomessa dagli assalitori, e dai difensori, dagli estranei e dai propri figli, gli uni contro degli altri aizzati sempre dai suoi nemici! quest’Italia che fu sempre in soqquadro ora per le agitazioni che la scotevano comunicandosi dall’una all’altra estremità come il terremoto, ora pelle ambizioni e pelle avidità degli invasori, ora per le crudeltà dei Brettoni e dei Franchi, ora per le ire interne che la tormentavano, per le guerre dei principi suoi che a palmo a palmo si contendevano il terreno, per la perfidia Arragonese che lungamente la tradì, insanguinò, e divise, poscia per la Ferocia spagnuola di cui rimase così vittima misera! Quest’Italia che in tante tempeste, in tante perturbazioni ha pur sempre dimostrato tanta costanza, tanta fortezza, tanto coraggio; che giammai mancò di guerrieri magnanimi, di valorosi principi ora caduti, ed ora risorti sulla propria terra come Antei sulla propria madre! Quest’Italia che dopo d’aver dato al trono di Francia il più grande Eroe che mai abbia esistito, si vide non solo frustrata nella più lieta delle sue speranze, ma anzi tradita e venduta e più schiava resa di prima! Perocchè tutto avrebbe potuto il grande Corso per la sua patria, se l’ambizione non avesse in lui scemato l’amor della sua nazione, non gli avesse fatto dimenticare le sue promesse, nè l’avesse indotto a stendere la sua destra nella bocca del Lione di S. Marco e a strapparne la lingua, ad ammorzare quella fiaccola, che invece doveva riaccendere del più vivace e bello splendore, e la quale per ciò appunto che era sul termine di sua vita meglio poteva rinfacciarci co’ pallidi suoi crepuscoli la nostra vergogna, la nostra dappocaggine e scuoterci dal letargo di morte a vivere novello. Non merita infine abbastanza questa Italia, che devesi vedere assiduamente spolpata, succhiata, e carca di catene dallo schifoso Tedesco, lupo alla cui rabbiosa fame in avvenire mal sarà per satisfare la lombarda e veneta contrada, se per noi non vien tosto rincacciato nella agghiacciata sua tana? Sì quest’Italia che un Papa Gregorio immiserì, insanguinò al punto di superare tutti i Tiranni dell’età passata nelle sue esecrande azioni e nella sua infame lega coi Tedeschi, e per convincersi come gli stia bene la sentenza d’Alfieri: _il Papa è Papa e Re_, sicchè _dessi abborrire per tre_: si rifletta che il numero durante il suo regno delle vittime a cui fece salire il patibolo ascende a OTTOCENTO e SETTANTADUE, oltre ai non pochi che segretamente si fecero trucidare in prigione senza processo, senza sentenza di Tribunale e per consiglio di quel famoso suo Segretario Lambruschini, che Iddio tenga lungamente in vita perchè possa sentire maggiormente il peso dell’universale disprezzo! Quest’Italia che nella parte sua più bella e deliziosa è tenuta peggio che schiava da un Ferdinando che non so se più abbia a nominare _buffone_ o _carnefice_ de’ suoi sudditi, giacchè sì nel rendersi ridicolo che odioso ed esecrando toccò l’ultimo segno a cui possa giungere non un principe, ma un barbaro! Quest’Italia che un Granduca di Toscana corona di viole e di papaveri, con una bugiarda mitezza di governo l’assonna e la snerva, col promovere l’ozio, i divertimenti, e colle Feste continue l’uccide, e colla speranza del lotto e delle tombole le fa vivere una vita simile all’agonia dell’etico, e giunse a renderla insensibile, fredda, indifferente alla vista di tanti monumenti che al forestiero che visita quella terra parlano sentimenti del più eroico valore, della più sublime virtù, e destano in core un vulcano d’affetti, il fanno fremere colla memoria del passato sulla fiacca, nulla, infelicissima nostra età! Quest’Italia infine (per tacere degli altri Signorotti) che un Carlo Alberto dopo averla vilmente tradita nel vent’uno, e barbaramente defraudata nel trentatre, tradisce continuamente e deride per soprappiù, trastullandosi della sua buona fede, con farsi credere a quando a quando disposto alla favorevole occasione di cancellarsi d’in sulla faccia il marchio della più esosa viltà! Vero insulto a chi generoso lo riconoscerebbe a fratello, a padre, vero adoperare di malvagia anima, d’anima infernale, che dimostra ben chiaramente, che la via dell’infamia per lui incominciata tutta vuole percorrerla fino alla fine e fare inorridire delle sue gesta nonchè le venerate ombre de’ suoi antenati _Carlo Emmanuele_, ed _Emmanuele Filiberto_, tutta l’umanità! Quando è dunque o Massimo, che noi a ragione possiamo raccontare un’illiade di maggiori guai? quando potremo noi dire di meritarci la nostra salvezza, se fin ora non l’abbiamo anche meritata? Sì quando verrà il giorno che dobbiamo valorosi intendere tutte le nostre forze alla grand’opra? il giorno che il nostro sagrificio potrà dirsi grande, bastante, e consumato? che infrante potremo vedersi cadere a piedi le nostre catene? quando ai nostri conati, ai nostri voti vedremo sorridere da lor sepolcro le anime di tanti giovani Eroi caduti sotto la scure dei nostri Tirannelli, martiri veri della patria, della libertà? OSSERVAZIONE IV. Una sommossa può essere sorgente d’immensi beni, come d’immensi mali; d’immensa gloria, come d’immensa infamia, la salute d’un popolo, o la sua totale rovina. _Pag._ 26. MASSIMO D’AZEGLIO. Finchè dite essere un fatto gravissimo quello d’intraprendere una rivoluzione, finchè dite essere anche il fatto più grave, a che possa il cittadino por mano, e che perciò vuole essere bene ponderato, ben preparato per essere bene condotto, io sono di pieno avviso con voi, e tutti quelli che per poco ragionano deggiono essere dalla nostra; ma quando asserite che questo fatto può condurre _ai più fatali errori, che può essere fonte d’immensa gloria, come d’immensa infamia_, scusatemi se vi osservo che date nel più grande strafalcione che si possa da uno scrittore pronunciare, se vi pruovo che vi siete lasciato scappare di bocca una grande bestialità, di cui in niun modo vi avrei potuto credere autore se per voi istesso non fosse ampiamente svolta ed espressa nel vostro libro. Come mai può dirsi infame un’azione suggerita dal più grande e nobile affetto, dal più sublime desiderio, dalla più eroica virtù? un’azione consacrata dal dolore, dal patimento, dal sacrificio de’ propri beni, delle cose più care, della vita? Un opera per essere cattiva, malvagia, od infame vuol essere fatta con fine cattivo, malvagio, od infame, del resto giammai potrassi dir tale senza sragionare, poichè l’opera che è buona per principio è sempre lodevole, anche quando lasciasse luogo a tristi conseguenze, le quali se possono qualche volta far compiangere chi ne è la causa innocente, se possono rendere men bello e glorioso il merito dell’autore, se possono convertirla in danno quando invece da essa si aspettava utile immenso, non è mai che possa autorizzare uno a biasimarla, a condannarla, ad incolparla d’infamia, o di _pazzia_. Infame e pazzo quegli piuttosto vorrebbesi dire, il quale osa profferire una tale bestemmia, il quale dissuade, scoraggia da simile impresa chi dovrebbe scaldare, incitare, ed illuminare perchè più facilmente se ne consegua l’intento. Predicate l’unione, l’amore come principio unificante delle popolazioni, delle masse, e delle famiglie, guardate che alla massima fra le generosità s’accoppi la massima prudenza, ma non togliete a scemare, a spegnere la più nobile fiamma che pur troppo non brucia più le anime nostre come bruciava quelle dei nostri padri, che dai loro sepolcri ci rinfacciano la nostra vergogna. Voi proseguite che l’intraprendere di propria autorità, il porre mano a dar la mossa pel primo ad un tal fatto è atto tremendo per chi abbia in pregio la giustizia, la fama propria, e della nazione, la carità di patria, e l’amore degli uomini, e perciò altamente da biasimarsi; ma quando mai un uomo solo s’accinse da principio a siffatta impresa non solo negli ultimi casi di Romagna, ma sì pure nei primi? E quand’anche fosse che uno solo avesse l’ardire e la possanza d’incominciare l’opera da se perchè dovrà cotanto condannarsi dove è certo che il suo desiderio, il suo affetto, il suo pensiero è quello dei più, e che al primo grido della sua voce, al muovere del primo suo passo mille e mille bracci si uniranno immantinenti al suo, mille e mille anime concorreranno seco intrepide al cimento. È pur d’uopo che qualcuno incominci le cose e questi non rimprovero e taccia di mentecatto, di temerario e d’infame, ma lode e gratitudine somma si merta dai suoi connazionali, meno nel caso che agisse ad insaputa di tutti, senza previo concerto, e senza tutta probabilità che la sua voce fosse per trovare un’eco nel cuore della maggior parte e che bastante sussidio gli sarebbe tosto apprestato da mandar ad effetto l’intrapresa; e chi fu mai il quale negli ultimi casi di Romagna si sia condotto talmente da spensierato? Voi Massimo mio gettate troppo spesso nel vostro scritto di false premesse, e da false premesse traete false conseguenze, locchè da tutt’altra persona che non da voi gli Italiani si sarebbero aspettato. Infatti dopo d’averci parlato come se la sommossa di Rimini abbia avuto origine da uno sconsigliato di tal guisa, soggiungete a pruovare meritato il forte biasimo da voi datogli, che _l’autore della sommossa si sarebbe fatto così ingiustamente arbitro delle volontà, dell’avere, della libertà, della vita d’un numero d’uomini che nè egli nè alcun altro se non Iddio può prevedere e calcolare, e se ne sarebbe fatto arbitro (quel che più monta) per usare i più preziosi beni, la più gelosa proprietà de’ suoi concittadini ad eseguire i propri giudizi, perchè senza il loro consenso, senza diritto, senza essere stato a ciò eletto da loro_. Ebbene supponendo anche per vera l’asserzione che l’ultimo caso di Romagna abbia avuto tal principio; favoritemi di dire in qual modo il promotore dell’opera ingiustamente si sarebbe reso arbitro di tali cose; a me pare, e così opino sia per parere a tutti, che niuno in tal occasione adoperando come i Romagnuoli; può farsi arbitro ingiustamente della sorte, della vita, dell’avere de’ suoi concittadini, e tanto meno col basso fine per voi toccato, senza costringerli per forza ad abbracciar il proprio partito, senza strappar loro un’assenso che nell’animo gli niegano, senza insomma una forte prepotenza. Or come questa forza può essere stata esercitata imperiosamente sugli animi altrui dall’eccitatore della sommossa di Rimini, se tutti che vi presero parte o col braccio o col consiglio, o coll’ajuto d’armi e di danaro, tutti operarono più che di loro spontanea volontà sto per dire con gioja, con furore, con entusiasmo? Come uno puossi far arbitro di tutto l’altrui contro l’assenso universale, se il pensiero di promuovere la nazionale nostra indipendenza è universale, se da una estremità all’altra della penisola secondo voi, uno è il desiderio, uno il volere? Il capo d’una rivolta a cui volontariamente, e certi di quel che intraprendono tutti parteggiano, non può dirsi arbitro delle altrui libertà, delle altrui sostanze, delle altrui vite, e delli altrui diritti, ma solo la guida degli altri perchè per ingegno, coraggio, e perizia militare, o politica scienza a tutti loro forse superiore. Del resto egli appigliandosi volontariamente all’opra, resta arbitro di tutto il suo, se gli basta l’animo di sagrificarlo alla patria, siccome degli altri che a lui si affidano spontaneamente ciascuno rimane pure arbitro di tutto il suo proprio, il perchè se non avesse voluto cooperare niuno avrebbelo a ciò spinto e costretto. E poi qui la cosa era concertata; meditata da tempo, ed incominciata non per opera d’uno, ma sì di molti, e ciò merita attenzione, di molti e non del vulgo, ma persone d’educazione di non umile famiglia, sicchè non devesi muovere dubbio ei non sapessero d’essere o no corrisposti nella loro impresa dai connazionali; onde anche l’esito infelice dei loro tentativi avesse peggiorato lo stato nostro, che peggiorare da quel che è, più non può assolutamente, io non veggo e niuno può vedere la ragione per cui con diritto sarebbero stati maledetti, siccome sarebbero stati benedetti in contrario se avessero guadagnato l’intento loro. Giacchè conchiude all’opposto affatto l’argomento, che Voi ponete innanzi dicendo: che solamente quegli il quale sia messo da un altro in un ufficio può giustamente scusarsi della mala riuscita con addurre che le sue intenzioni erano buone; e non coloro che nell’ufficio si pongono da sè, imperciocchè questi anzi unicamente meritano una tale scusa (sempre nelle precennate condizioni) agendo essi solo a loro talento, quando chè chi opera per un altro deve mettere in esecuzione non li proprii ma li altrui divisamenti. Ma lasciando da banda queste sottigliezze, permettetemi che vi dimostri essere in vera contraddizione con voi stesso: non avete detto in sul principio del vostro libro che noi non avevamo sofferto abbastanza? che i nostri mali non erano ancora sì gravi da meritarci la nostra indipendenza? Ora adunque perchè dimenticare le vostre parole sì presto, e lanciare sì brusche, sì amare, sì severe rampogne contro gli autori della rivoluzione e farli meritevoli d’infamia e di maledizione se il loro tentativo accresceva le nostre sciagure, quandochè ciò giusta la vostra opinione potrebbe renderci degni di risorgere, di riavere l’antica nostra libertà? Avreste fatto assai meglio qualora aveste detto che essi hanno meritato l’universale lode, ammirazione, e gratitudine anche nell’esito avverso, perchè il solo concetto non che il coraggio di porlo in esecuzione procaccia venerazione a chiunque lo ravvolga nella sua mente, e cerchi di stamparlo profondamente negli animi altrui; sì, avreste fatto meglio assai di dire loro che l’esperienza di tal fatto dovrebbe ammaestrarli per l’avvenire ad essere più prudenti, ad apparecchiar con maggior maestria la cosa un’altra volta, di svelare i loro falli cogli opportuni consigli per scansarli in avvenire, e ciò non potendo, di tacervi. Però chè non essi devono avere crudeli rimorsi di tanto avere osato, _come voi dite_, ma sibbene gli altri che non sorsero all’opra, coloro, che non li ajutarono, furono freddi vergognosamente a quella voce che secondata tutto poteva restituirci, perchè tutto fuorchè il nome abbiamo perduto. OSSERVAZIONE V. Gli Italiani hanno avuto quello che meritavano pel loro Egoismo, e per la miseria dei loro disegni. _Pag._ 10. MASSIMO D’AZEGLIO. Se la taccia d’egoisti fosse rivolta a noi da uno straniero, ci venisse d’oltralpe a d’oltre mare, poca o niuna meraviglia noi senza dubbio faremmo, usi come siamo da lunga pezza a sentire cotesti predicatori, che visitando da un capo all’altro la nostra penisola colla velocità d’un corriere postale, sorgono profeti del passato a declamare sulle rovine; bensì e stupore e rammarico quella ci desta quando a noi perviene da coloro, cui serra il baluardo delle stesse montagne, e ’l vallo dei medesimi mari, e tanto più da un Massimo d’Azeglio, da un uomo nel cui seno arde forse al pari che nel nostro la fiamma della patria carità. Perchè Azeglio riprendere i vostri concittadini d’Egoismo, e perchè rimproverar loro la miseria dei disegni? invece di sollevar la vostra mente a maggiori intendimenti, a fortificare col consiglio e col parteggiare più ampie idee, quei generosi che tutto posero in non cale per la redenzione della lor patria, e a cui forse nulla mancò per condurre a termine l’impresa che una saggia ed esperta guida. Una rampogna ingiusta, sappiate, scoraggisce, e paralizza quelle forze dell’animo, che bastarono a durare vittoriose contro tutti i macchinamenti, contra tutte le oppressioni della tirannide, ed ingiusta è la vostra rampogna verso i Romagnoli, prima perchè essi, sebbene il loro movimento fosse _provinciale_ come voi osservate, avevano uno scopo grande e nazionale, e pruova ne è il correre a prendervi parte i Toscani, ed il prepararsi a ciò pure i Napoletani; secondariamente perchè da un moto parziale si può progredire ad un movimento generale della Penisola coll’istessa facilità, che una piccola scintilla eccita secondata un grandissimo incendio. Di fatto chi vi assicura che la bandiera bianca per essi inalberata non fosse un saggio trovato per mettere meno sull’allarme il governo, e farsi ad un tempo più leggiermente un forte numero di fautori, piuttosto che la manifestazione vera dei loro desiderii? Credete voi possibile che i Romagnoli portassero fiducia d’indurre l’ostinatissimo loro Gregorio a dar loro le chieste riformagioni con una sommossa, mentre nella rivoluzione del 31. videro ad istanza della Francia, della Gran Brettagna, della Prussia, dell’Austria e della Russia promettersi dal Papa tutte quelle instituzioni da cui dipende la prosperità e la quiete d’un popolo, e quindi non solo non ottennero ciò che avevano dimandato, e loro era stato accordato, ma fra breve si trovarono in peggiori situazioni che non erano prima? Io per me anche non mi costasse di certa scienza che ben altri erano i loro divisamenti, pure mai potrei indurmi a ciò credere, a far un così grave torto alla nobile indole dei nostri fratelli. In quanto poi all’esito, fintantochè dite che i Romagnoli hanno toccato le male conseguenze delle non ben ponderate misure della loro inesperienza, non vi si può che dare piena ragione, ma quando insistete che essi hanno ottenuto ciò che meritavano solo d’ottenere, tutti veggono in voi più un maligno ed imprudente censore, che non un provvido e schietto consigliere, la severità per riprovare e condannare, più che la volontà e la saviezza per migliorare. Sta bene che voi raccomandiate a mettere _in prima fila_ la causa della nazione, ma non potete perciò rimproverare chi non negligentandola menomamente, comincia col tentarne un’altra forse per mettersi in grado da poter meglio operare per la prima, unico motivo che a questi giorni può spingere non dico i Romagnoli, ma qualsiasi degli altri popoli della nostra Penisola al partito delle sommosse _parziali_. Del resto comunque siansi condotti gli insorti della Romagna, è certo che la vostra asserzione in contrario senza pruove di sorta è nulla, anzi vergognosa, il perchè anche, supponendo, voi abbiate avuto qualche motivo a ciò profferire, avreste dovuto anzi di riprenderli procurare di emendarli e disporli meglio per l’avvenire fingere d’ignorare la colpa che a quelle vittime generose potessero venire in qualche modo a diritto imputate. Così la vostra parola non sarebbe tornata nè svantaggiosa nè offensiva; siccome tornò ridicola allor quando si fece a consigliarli di ricorrere ai giornali esteri e a farvi sovra proteste contro il loro governo per quelle innovazioni e quei miglioramenti che hanno diritto di domandare e sperare; come se un Gregorio si mostrasse di tempra più facile ad essere impressionato degli altri nostri Tirannelli, i quali pur troppo sanno meglio che noi far orecchio da mercanti a ciò che loro non conviene ascoltare. Se volessero rispettare i giornali non comincierebbero essi a rispettare un pò più l’opinione pubblica, l’opinione universale? E poi a quali rischi uno non s’esporrebbe? voi sapete, o almeno non dovete ignorare quali imbrogli, quali esosi maneggi abbiano luogo nella posta, nulla anche di turpissimo può oggi maravigliarci nel nostro paese a tal riguardo, quando nemmeno la libera Bretagna ebbe vergogna d’insozzarsi in tale viltà, in tale frode.[2] Per la qual cosa non solo non vuolsi considerare come egoismo lo spingersi per la via delle sommosse parziali per ascendere per via di queste ad una generale, ma anzi merita lode somma chi sta attento per cogliere l’occasione più propizia per dar fuoco alla mina; il che se difficile è a conseguire, lo è immensamente di più il far scoppiare, dirigere, e mandare a termine una generale; onde avreste voi bene meritato dalla patria e da tutti qualora descritta ed appianata ci aveste la via da tenersi in una grande intrapresa, che non accennarcela solamente, e dirci che _per non esservi entrati francamente e generosamente_, noi Italiani siamo stati, e siamo tuttavia più che _compianti_, derisi. Lasciate pure che le altre nazioni anzichè compatirci ci deridano, purchè non discendiamo noi a deriderci a vicenda, poco importa, verrà il giorno o tardi o tosto che inarcheranno dalla maraviglia i loro occhi, e riconosceranno in noi i veri figli, i veri discendenti di quei grandi che fur per due volte maestri in tutto al mondo intero, ed allora saremo ampiamente vendicati delle loro derisioni. Che poi ogni ambizione municipale sia cessata nelle nostre provincie, ne è prova la rivoluzione del vent’uno a cui si pose esca e fuoco da ogni parte col medesimo scopo, collo istesso desiderio, dir voglio dell’universale indipendenza della bella penisola, ma più di tutto ne è pruova l’entusiasmo con cui tutti i popoli italiani si mostrarono pronti a gridare loro re ora _Carlo Alberto_, ora _Ferdinando di Napoli_, ora il _Duca di Modena_, che pareva dovesse fortunatamente diventare il rovescio della Medaglia, di cui il suo padre era il diritto, alle più piccole apparenze di moderazione, di valore, o di ravvedimento che venisse loro dato di ravvisare nei nostri Tiranni; ne è pruova finalmente la differenza insorta ultimamente tra il Piemonte e l’Austria per le dogane dei vini, in cui Carlo Alberto volendo sostenere i suoi diritti fece concepire su di se le più belle speranze, talmente che mille chiacchiere si sparsero, mille progetti, tutti si preparavano a proclamarlo Re d’Italia mentre egli vuol continuare ad essere principe dei vigliacchi, re dei Giuda. Interrogate pure gl’Italiani delle nostre più illustri città e vedrete che niuno v’incontrerà di rinvenire il quale desideri la libertà d’Italia a patto che il suo paese riacquisti il suo principe, il suo doge, la sua antica signoria, l’esperienza del passato ha dottrinato non dico le masse colte, ma per fino gli abitanti dell’abituro, e del campo. Il Genovese pure che fu tenuto sempre pel popolo il più ambizioso, il più superbo, il più fiero della gloria sua municipale non già meramente in Italia, ma quasi sto per dire nel mondo, ebbene il genovese è forse quello che più di qual si voglia, altro vi fa maravigliare de’ suoi sentimenti italiani se togliete ad interrogarlo anche nel ceto più basso. Mi ricorderò sempre, che un rozzo barcaiuolo da me interpellato se era contento del governo sardo, se si sarebbe rivolto alla proposta di un governo libero, italiano, e nazionale, mi rispose queste semplici ma energiche parole: _non amo trattenermi in questi discorsi, perchè troppi me ne furono inutilmente fatti fin’ora, ma quando si trattasse davvero d’un altro governo anche non libero anche non nazionale, ma solo migliore dell’attuale, non solo io, non solo tutti gli uomini capaci di consacrare il loro braccio alla patria, ma perfino i bimbi che anco si nascondono nel ventre delle loro madri si rivolterebbero al dispotico governo, che ci schiaccia l’esistenza_. E simili risposte sebbene non sempre in sì energico modo mi vennero fatte dal basso popolo nelle varie parti della nostra penisola, sicchè vedete quando io vi dico che il municipalismo è caduto, universale è il pensiero della nostra nazionalità, il pensiero di risorgere in uno solo intendimento, ve lo dico per propria mia scienza, perchè son cose che ho toccato con mano, che ho veduto co’ miei occhi in alcuni miei viaggi. Volete sapere qual cosa manchi agli Italiani? un capo, uno che li guidi, che inspiri fiducia nelle pur troppo scoraggiate masse; fate che lo trovino e l’esito dell’impresa sarà strepitoso, terribile, grande e felice. Del resto procuriamo di estendere se più anche si può, la conoscenza della propria abiezione, di insinuare ogni maniera di liberi e generosi sentimenti negli animi della moltitudine, ma non con ispensierata anzi sfacciata maniera a cui voi consigliate, ma sì prudentemente, e sotto l’anonimo non avendo bisogno la verità ad essere compresa ed avuta in pregio dell’autorità d’un nome più o meno illustre, più o meno degno di fede in apparenza, siccome ne ha di mestieri la calunnia, e la menzogna per ottenere credenza. Sì, rinfreschiamo le glorie nostre passate nella morte del popolo; chè niuna cosa più giova a convincerci della propria forza che ciascuno abbiamo nel braccio e che è atta centuplicarsi mille volte in energia e vigore colla unione, quanto il ricordare l’Italia del 1154, fino al 1177, dir voglio al tempo della quasi incredibile Lega Lombarda, ovvero i Parmigiani che fugano Federico 2.º con tutto il suo esercito nel 1248, la Sicilia che stermina i Francesi nel 1282, la cacciata del Duca d’Atene nel 1345, l’opra di Cola da Rienzo nel 1347, Stefano Porcari a Roma nel 1453, Girolamo Olgiati a Milano nel 1478, Niccolò Capponi a Firenze nel 1494, quindi Francesco Ferrucci nel 1530 nell’assedio di Firenze, la congiura di Burlamachi a Lucca nel 1546, la sollevazione di Napoli contro il Toledo nel 1547 a cagione del sant’Ufficio, la cacciata degli Spagnoli da Siena seguita poco dopo della caduta di quella forte Repubblica cioè nei 1552-55, e nel 1647 le due rivolte condotte da Giuseppe d’Alessio, e da Masaniello, a Palermo ed a Napoli, i quali se avessero ottenuto il favore de’ nobili sarebbero giunti oltre alle lor patrie a liberare tutta l’Italia dalla servitù di Spagna, il nome d’un Pietro Micca che all’assedio di Torino nel 1706 espone sua vita a certa morte e salva la patria dai Francesi, la gloria di Genova che nel 1746 scacciò gli Austriaci, la resistenza dei Corsi contro la Francia nel 1769, e quella della plebe Napoletana nel 1799 contro le schiere di Championnet, resistenza la più valorosa che mai siasi vista, e che da se sola fa grande elogio a quel popolo. Sì, questi e tanti altri illustri fatti che le storie straniere con ragione hanno da invidiare alla nostra, noi dobbiam continuamente occuparci per rendere popolari, perchè possano aumentare quella fiducia che ciascuno di noi prima nelle proprie forze, poscia in quelle de’ nostri fratelli, e giammai negli stranieri abbiamo a riporre, se non vogliamo aggiungere pentimento a pentimento, onta ad onta, sciagura a sciagura. OSSERVAZIONE VI. La verità è una sola, e se l’applichiamo ai principi, dobbiamo egualmente applicarla a chi fa ciò che essi fanno, benchè con modi e fini diversi. _Pag._ 28. MASSIMO D’AZEGLIO. Mettendo a paragone il popolo italiano coi principi che stendono la tirannica destra su desso, voi dapprima vi palesate in dubbio a quale delle parti abbiate a dare la preferenza circa al modo loro di comportarsi, il quale sia meno nocivo alla causa nostra, meno aggravante li lunghi nostri mali, poscia venendo fuori colla sentenza di certo inconcussa, che la verità è una, e deve applicarsi ai principi medesimamente che ai loro sudditi, non temete più di non andare errato pronunciando qual sia la vostra mente a tal proposito, e con chiare note dite dopo un’attenta considerazione che «_l’arbitrio dei principi genera di rado le conseguenze calamitose che quasi sempre genera l’arbitrio dei capi di sommossa_», adducendo per argomento a fiancheggiare l’opinione vostra; _avere i principi una posizione data, e che non si son scelta di propria elezione_. Io non so se assurda più che ridicola, ed ingiuriosa si debba dire la vostra asserzione, ma quel che è certo mi empie di maraviglia allorchè penso aver ciò voi detto per far apparire sempre più condannabile la sommossa dei Riminesi. Perocchè qual cosa essi hanno operato cotanto riprovevole? forse stragi, incendii, incesti, ladroneggi, saccheggi, ed assassinii? Eppure siffatte cose dovrebbero avere avuto luogo nella loro impresa perchè potessero essere con ragione messi a paraggio coi nostri Principi, perchè le loro azioni valessero a superare in danno, o controbilanciassero le costoro prepotenze, le costoro ingiustizie, e barbare azioni d’ogni maniera. E posto anche che tale si fosse stata la condotta degli insorti Romagnuoli o per cieco furore o per accanito proposto di giusta vendetta, ed avessero proprio accresciuto le pubbliche calamità piuttosto di sminuirle, a chi se ne dovria imputare la colpa maggiore? agli insorti, o a chi è la causa della lor insurrezione? agli schiavi che per crollare un giogo se ne trassero un altro peggio sul collo? ovvero ai tiranni, a que’ mostri di natura che dopo mille rischi aver corso di pagare il fio di tutte le loro nefandità, sfidano il destino, il consenso universale, coll’incrudelire, coll’ostinarsi non solamente a rimanere nel fango, ma coll’arrovellarsi il cervello per rendersi più uggiosi, più maladetti, e più sprezzati? Il Popolo, ed i Principi, possono essere paragonati non nel caso, l’uno della più alta schiavitù, li altri del più terribile dispotismo, ma sì in quello che Iddio, Natura, i tempi, e l’incivilimento imperiosamente dimostrano dover essere lo stato dell’uomo tanto destinato ad obbedire, quanto a governare, dell’uomo che la patria e la società vogliono vedere che compia prima i suoi doveri verso di loro, perchè a diritto si possa un dì lagnare, dove vengano offesi i diritti di lui. In tutte le cose mio caro, ma principalmente in quelle di politica prima di conseguitare giudicii sul bene e sul male, sul merito e sul demerito, sulla colpabilità e sull’incolpabilità è di mestieri dagli effetti montare alle cause, e dalle cause discendere agli effetti, è d’uopo tener conto di tutto che possa dannare o scusare un’azione, si deve aver l’occhio a ciò che risguarda al fine impostogli dall’autore, ed a ciò che all’esecuzione materiale del suo divisamento tanto si riferisce, altrimenti senza avvedersi uno viene al punto che gli sfuggono di bocca solenni strafalcioni pari al vostro di attribuire al popolo italiano tutte quelle calamità che gravangli sul capo, le quali invece non si devono riputare altro che conseguenza diretta o indiretta della barbarie di chi lo governa. Se voi o Massimo vi vedeste vibrato un colpo all’improvviso e per iscansarlo vi precipitaste inavvertentemente all’indietro in un precipizio, che rispondereste di grazia ad uno che visitandovi al letto della vostra agonìa vi dicesse, era meglio schivare il colpo con piegar la persona o da l’uno o dall’altro fianco, chinarsi ed aggredire l’avversario, osservare il rischio che correvate per fuggirne un’altro, e poscia vi desse dello spensierato, del pazzo? Pressochè uguale alla risposta che darestegli voi in simile caso, è quella che nel loro animo vi darebbero i Romagnuoli: e se non ve la danno è per predicarvi coll’esempio, ciò che voi avreste dovuto fare con loro, cioè che convien tenere conto delle buone intenzioni, si deve guardar più ai principii che guidano all’opra, che non ai mezzi con cui uno si accinge ad operare. Non seppero sopportare la loro sventura i Romagnuoli nell’insorgere tante volte come hanno fatto intempestivamente, voi replicate, incitandoli alla virtù di soffrire con rassegnazione, ad imitare gli abitanti della generosa, e misera Polonia, ma pochi giorni dopo la pubblicazione del vostro libro cadde lo specchio infranto che voi ponevate innanzi agli occhi degli Italiani, perocchè i Polacchi come i Romagnoli di tempra non più che umana, non potendo soffrire più a lungo li tanti mali che li travagliavano, imitarono quei di Rimini e toccarono più lagrimevole più straziante esito dei loro tentativi, che non è incontrato a questi. Dal chè chiaro apparisce potersi giungere fino a un grado di rassegnazione, dove poi è giuocoforza gridare, non puossi più tenere in istrozza il profondo sospiro, è bisogno, necessità alzarsi furenti contro i nostri nemici, ritentare gli antichi conati con più calore, appigliandosi novellamente alle mal sortite imprese. Morto è quel Leone che nel più acuto del dolore, nel maggior martoro della febbre non manda a quando a quando un suo ruggito, uno spaventevole lamento. Il dolore vuol essere sofferto nel segreto dell’operosa meditazione, finchè un generoso fremito non abbia eccitato nel nostro animo, di poi conviene dargli uno isfogo, bisogna irrumpere con tutta l’energia possibile, del resto quella fiamma che dovea condurci a vittoria, a vendetta, a libertà, venendo entro noi sconsigliatamente compressa, paralizza ed annichila le ultime nostre forze, ci strugge, e ci uccide in meno tempo che non può il ferro del Tiranno. Preparate le fila della trama affinchè meglio sia ordita, segnate il cammino che dobbiamo presto calcare per venire a salvezza, ma non venite più a predicare scoraggiamento e rassegnazione, la vostra missione sarebbe falsa, chè la maggiore nostra colpa ormai fatta antica è l’aver sofferto di troppo. Di qui si parte la derisione con che gli stranieri tentano d’oscurare la nostra gloria passata, non già dai generosi tentativi, che fatalmente fino al giorno d’oggi non giovarono che ad accrescere il numero dei martiri. OSSERVAZIONE VII. Al Governo Papale dimanderò cosa che non parrà indiscreta, gli chiederò pe’ suoi sudditi la grazia d’essere un pò più assoluto, un pò più dispotico di quello che è. _Pag._ 38. MASSIMO D’AZEGLIO. Che voi abbiate dimostrato che le male conseguenze, i funesti seguiti della reggenza del governo Papale superano a pezza tutti gli inconvenienti di qualsiasi governo assoluto e dispotico, tutti vi commendano, e ciò era veramente quello che dovevate fare per indurre ad aprire gli occhi chi si incapponisce a tenerli chiusi; che abbiate anche pruovato il governo papale non essere veramente assoluto e dispotico mentre si crede d’esserlo, ognuno non può a meno di approvare, perchè anche da questo vien manifesta sempre più l’ingiustizia, e la tirannia di quel governo, e la ragione perciò che hanno sudditi d’invocare le dovute riforme, e di ricorrere all’armi vedendo di non essere affatto ascoltati diversamente; ma che voi veniate al vostro assunto, e dimandiate per il bene dei Romagnoli la grazia al governo Papale d’essere un pò più assoluto, un pò più dispotico, i vostri lettori non solamente non convengono, ma riprendono, e biasimano fortemente il vostro avviso, e con ragione. Da chi siete voi messo a trattare la loro causa? Chi vi disse che essi a ciò si contentino, che reputino una grazia una tal concessione, una tal riforma? Governi assoluti e dispotici sono tutti gli altri dei varii stati d’Italia, e se i Piemontesi, i Lombardi, i Napoletani, i Toscani, i Lucchesi, i Modanesi, i Parmigiani non solo non sono contenti dei loro governi, ma anzi si struggono dal desiderio di crollarne il giogo, come volete che i Romagnuoli possano essere intieramente soddisfatti nelle loro mire qualora il Governo Papale su quelli si modellasse? come potete esservi condotto a credere che anzi essi avrebbero avuto a grazia un siffatto mutamento? Veramente v’ha una grande differenza tra quelli e questo! negli altri stati Italiani è un solo che figura d’incatenarci per via dell’opera de’ suoi ministri, i quali non hanno autorità, quando non se la prendono, e sono stretti esecutori degli ordini del re, quando vogliono; nello stato del Papa non è uno, ma sono più che hanno, voi dite, il privilegio di disporre dei ceppi, e della scure, e che per ciò? se gli Italiani tanto di questo che di quelli stati si trovano tutti pressochè alle stesse, se tanto qui che altrove l’amore pei sudditi è lo stesso, lo stesso il favore all’incivilimento, la stessa la provvidenza delle leggi, lo stesso il riguardo ai diritti pubblici e privati del cittadino! Io entro in avviso che abbiate ciò detto per ischerzare, non altrimenti che quando parlando della saggia e generosa condotta serbata dal Gran-Duca allorchè dal Nuncio Apostolico T. Sacconi gli era stata dimandata la resa di Renzi, uno dei principali del moto di Rimini, uscite in queste parole: _aver egli destato con tal atto invidia in qualche principe italiano_. L’Italia presentemente non ha più quei principi di cui si poteva a diritto vantare un giorno; oggi li suoi principi sono figli snaturati, e non sono capaci che di azioni vituperevoli, di passioni abiette e vili; veri animali immondi, che più si sprofondano nella fanga, quanto più tengono della lor indole, non possono che invidiare il male. Ma l’invidia ad una nobile azione può aver luogo solo in un’anima generosa, in un’anima che si strugga di non potere afferrar un’occasione per ispiegare quella forza, che nell’intimo le agita tutte le fibre. Qual è di grazia quegli che alle sollecitazioni dell’Austria, alle calde istanze del Governo Pontificio avria non dico dimostra tanta fermezza di carattere da non mutar determinazione, come poi timidamente fece il Granduca, ma che avrebbe solo esitato un’istante dall’aderire alle loro ingiuste dimande? qual dei nostri Principi anzi non avria, anticipatamente alla manifestazione de’ loro desiderii, rinchiuso il Renzi nelle sue prigioni, e quasi direi inalberatagli la forca piuttosto d’approvare, anzichè d’invidiare l’atto giusto e lodevole di generosità del Granduca di Toscana? Carlo Alberto? quell’infame, che dopo d’avere spinto i suoi soldati, i suoi compagni, i suoi congiunti, li suoi amici sulla via della rivolta, non ebbe vergogna di mancare al suo giuramento, di tradirli, e di spargerne il sangue, pronunciando, dopo avere soscritto più sentenze di morte, queste rabbiose parole: _muojano! muojano tutti! che la voglio tutta schiacciata questa maledetta genia di liberali_. Carlo Alberto cui non bastò l’animo mai di richiamare dall’esiglio quei tali nemmeno, di che egli stesso s’era fatto guida nel Ventuno? Avete veduto ultimamente come infatti si regoli il governo Sardo verso i liberali, e chi sospetta per tali: Il Conte Annibale Montevecchio, ed il Sig. Filippo De-boni per vostro consiglio si erano recati ambidue a Torino sulla fiducia di trovarsi in maggior libertà, e più sicuri dalle molestie della polizia, da cui qui appena qualche motivo avevano a temere. Essi non potevano dirsi compromessi col loro governo come il Renzi, nè tampoco appariva fossero perseguitati, e se si erano dilungati da esso ciò avevano solo fatto l’uno per timore, l’altro per isperanza d’un meglio altrove e più vantaggioso soggiorno, eppure passarono essi un giorno solo di vera quiete, di vera tranquillità d’animo in Torino? obbligati a consegnarsi mane e sera all’ufficio della polizia, espiati nei loro passeggi, osservati ed ascoltati nei loro discorsi dopo il volgere di pochi giorni da mille disinganni amareggiati, si videro intimata la partenza, e non vi fu nè la vostra nè la protezione del vostro fratello, e di molti altri grandi della corte e dello stato, la quale sia stata valida a far sospendere un tal ordine, e a procurare loro anche un solo prolungo di dimora. E dopo un cosiffatto procedere del suo governo volete voi che un Carlo Alberto potesse sentire invidia della fermezza del Gran Duca di Toscana nel niegare all’Austria, ed al Papa il Renzi, uno dei capi della sommossa? Oh scusatemi! ma voi o non parlate di buon conto, o Balbo vi mise le traveggole agli occhi, e sia che vi troviate nel primo, sia che vi troviate nel secondo caso, è sempre uno stato indegno di voi, d’uno che gli altri dovrebbe guidare, e non lasciare che gli altri conducano lui pel naso. Non abbiate fiducia in chi nei fatti non si mostra consentaneo alle sue parole, non nel Balbo e ne’ suoi seguaci che sotto il manto di moderazione, e meglio del Gesuitismo predicano la riforma finchè può migliorare le loro condizioni, può favorire il trionfo della loro casta, dell’aristocrazia; ma alla voce d’indipendenza, di libertà, di rivoluzione, si spaventano, si crucciano, tremano a verga a verga, vuoi per la coscienza dei loro demeriti, vuoi per lo timore di cadere dal loro potere, di dover lasciare la maschera di moderato liberalismo, di occulata prudenza con cui tentano, a detta di Tacito, di corrompere il popolo colle mentite speranze, di consolidare il loro regno allontanando gli animi delle ardite imprese, sostituendo al coraggio la disperazione. Anime che si potrebbero paragonare a quelle piante parasite che per tenersi in piedi hanno bisogno che altre loro servano d’appoggio; demoni d’inferno che incapaci ad operare nulla di bene, di grande, non solo non vogliono riconoscere il merto di chi immensamente li avanza, ma vorrebbero spegnere quanto può essere di nobile, di sublime per desiderio, volontà, intendimento ed intrapresa in altrui. OSSERVAZIONE VIII. È utile all’Italia, ed atto facile ad imitarsi, il protestare a viso aperto contro le ingiustizie che da noi si soffrono, qualunque siano, e da chiunque ci vengano. _Pag._ 110. MASSIMO D’AZEGLIO. Si vede chiaramente che voi non avete sofferto mai nulla, e per conseguenza giammai avete dovuto alzar su la vostra voce contro qualche atto d’ingiustizia e di prepotenza usatovi o dal vostro o da altro governo, che altrimenti non avreste dato il ridicolo consiglio agli Italiani di protestare a viso aperto contro tutto quanto loro dai governi fassi soffrire, piuttosto e con maggior frutto loro avreste dato un avvertimento affatto opposto perchè inutilmente non avessero la spensieratezza di affrontare i tanti rischi d’ogni maniera a cui necessariamente quegli va incontro, il quale osasse non diciamo far una solenne protesta, ma solo una rimostranza ai nostri Tiranni, i quali volendo essere infallibili, sono incapaci di ricredersi, ed indietreggiano nel peggio piuttosto di valersi dell’altrui consiglio per procedere al meglio, simili a quei ronzini che se li battete retrocedono e scaraventano de’ calci, se li accarezzate si piantan fermi nella via, ed un buon argano ci vorrebbe per farli muovere. Un fatto solo può servirvi di pruova mentre ne potrei citare moltissimi da cui si rileverebbe il più felice esito a sperarsi da una protesta qualsiasi, essere per avventura l’indifferenza. Nel 1841, se non fallo trovavasi in questa capitale l’Areonauta Comaschi, il quale innalzatosi nel suo pallone ritentava una salita nel cielo che da qualche giorno il vento gl’impediva di mandare ad effetto, il viaggio dapprima riesce felice, rapido l’areostata tra gli applausi della affollata popolazione era asceso ad un’incredibile altezza, quando un soffio di vento di tramontana lo spinge quasi orizzontalmente sulle colline di Moncalieri. Il Comaschi vedendosi contrastato dai venti, anzichè venire a lotta con loro, decide di discendere per mezzo del _paracadute_. Il suo Pallone piombato al suolo in poca distanza da lui venne preso da alcuni soldati del reggimento di Savoja Infanteria che staccati dal corpo che si ritirava dalla così detta _passeggiata militare_. Egli presentatosi loro, chiama il suo pallone, essi dapprima ridono poscia sguainata la spada si fanno attorno a tagliuzzarlo niente meno che avessero avuto da menar strage sul nemico del loro paese. Il Comaschi non la potendo dire nè in parole nè in fatti si ritira, e si reca a Torino dove raccontata la cosa a qualche amico trovò una persona che s’incaricò di farci avere una compiuta soddisfazione. Infatti pochi giorni dopo Carlo Alberto gli faceva pagare il pallone colla cassa del reggimento a cui appartenevano que’ soldati, mandò alla _catena militare_ quelli che erano apparsi più colpevoli, degradò e congedò dal servizio gli ufficiali superiori che in quella sera accompagnavano il _corpo_. Alcuni di questi ricorsero al Re per far valere le loro ragioni e pruovare che in verun modo non potevano essere colpevoli, il Re letta la supplica si rivolge al suo primogenito il Duca di Savoja, e gli chiede il suo parere, essendo questi allora il colonnello di quel Reggimento. Volete sapere la risposta, il resultato? Ebbene l’erede del trono Sabaudo volto al padre soggiunse con disdegno: _se fossi nel posto di V. Maestà non solo non mi ritratterrei dalla presa determinazione, ma farei tutta fucilare cotesta canaglia_. Il consiglio del figlio Augusto, le cui parole ce lo dovrebbero caratterizzare, non venne è vero dal padre accettato, ma è vero altresì che quella rigorosissima sentenza fu eseguita senza modificazione di sorta, e per alcuni ingiustamente; ma di simili fatti ne vedrete addotti altri molti in questo opuscolo, e tutti tratti dalla storia attuale del nostro paese, sicchè potete col massimo agio accertarvi della verità. Onde vedete o Massimo per ora inutile il consiglio di far proteste ai nostri signorotti, come quando mi abbiate letto fino alla fine iscorgerete di più essere molto rischioso. Trasportatevi solo a qualche anno addietro nella nostra storia, cioè al 1815, e vedrete come Ferdinando di Napoli mandasse proclami a’ suoi sudditi, in cui prometteva, riforme, leggi provvide, libertà, ed ogni maniera di civile guarentigia, ma non mantenendo mai alle sue promesse, gli abitanti delle due Sicilie si levarono a tumulto nel 1820, in un solo pensiero e proclamarono una costituzione, la quale fu accettata con sacramento dal Re e da tutta la reale famiglia. Ma calpesto il giuramento corse il Re a Lay-bach per avere l’assistenza dell’Austria, alla quale parve non vero mettere in esercizio le sue bajonette, e perciò venne nel regno con numerose falangi, ed obbligò il popolo a rinunciare affatto li suoi diritti. E chè non fu fatta nel tempo istesso di quella invasione, cioè nel 19. Marzo del 1821. una solenne protesta? il deputato e Generale Poerio facea dal parlamento approvare una dichiarazione, la quale veniva a terminare in queste parole ec. _noi protestiamo contro una siffatta rivoluzione del diritto delle genti, risoluti di serbare intatti i diritti della nazione e del Re ed appellandone alla saviezza di S. R. M. e dell’augusta A. R. suo figlio, rimettiamo la causa del trono e della nazionale nostra indipendenza nelle mani di quel Dio, che regge i destini dei Sovrani e de’ popoli, e che agli uni e agli altri a tempo debito sa fare iscontar le sue colpe_. Da ciò che ottennero mai? mali più gravi che prima anche non conoscevano, e per citarne uno, l’abolizione del parlamento siciliano instituito perfino dall’unione dell’isola alla terraferma. Ma veniamo allo stato Pontificio: non erano più forti, più meritevoli d’attenzione le rimostranze fattegli dai rappresentanti delle maggiori potenze, Francia, Inghilterra, Austria, Russia e Prussia, nel 31. Maggio del 1835. presentando al _Bernetti_ prosegretario di stato, il seguente _memorandum_. «Il governo Pontificio deve essere posto su di una base solida, per via dei miglioramenti stati già indicati ed annunciati dalla Santa Sede istessa. Questi miglioramenti poi, che a tenore dell’editto dell’eminentissimo cardinal Bernetti, fonderanno un’era nuova per li sudditi di S. S. si collegano con una intera garanzia, sicura dai pericoli e conforme all’indole di qualsiasi governo elettivo. Per raggiungere codesto scopo salutare, il quale a ragione della situazione geografica e sociale dello stato della S. Chiesa interessa tutta Europa, fa d’uopo che l’ordinamento sistematico dello stato medesimo si appoggi ai due principii citati: 1.º alla introduzione dei miglioramenti, di che si tratta, non solo nella provincia insorte, ma in quelle ancora, che se ne stettero tranquille, e nella capitale medesima; 2.º _all’ammissione generale dei laici agli affidi amministrativi e giudiziari_. E queste miglioranze dovrebbero comprendere il sistema giudiziario e quello delle amministrazioni municipali e provinciali. In quanto all’ordine giudiziario l’esecuzione interna e lo sviluppo delle premesse e dei principii del _motuproprio_ dell’anno 1816. offrono mezzi più certi ed efficaci per riparare alle universali doglianze in proposito di questa parte importantissima dell’organizzazione sociale. L’amministrazione generale delle municipalità elette dalle popolazioni e lo stabilimento di municipali franchigie, che ne determinino l’azione entro la sfera degl’interessi locali dei comuni, devono costituire necessariamente le basi di ogni miglioramento. L’organizzazione poi di consigli provinciali, come consigli permanenti destinati a prender parte al governo di ciascuna provincia nell’adempimento del loro ufficio, e con attribuzioni convenevoli ed una più numerosa adunanza, specialmente riguardo ai maggiori interessi della provincia, sembra attissima ad introdurre nell’amministrazione miglioramenti e semplicità, sicchè valga a sorvegliare l’amministrazione annuale, ripartire le imposte e fare al governo conoscere i veri bisogni delle provincie. La gravissima importanza, in ogni stato bene ordinato, delle finanze e di una amministrazione del debito pubblico atta ad aggiungere al credito finanziario del governo le più desiderate garanzie, ad accrescerne i mezzi e ad assicurarne l’indipendenza, pare che renda necessaria la creazione di uno _stabilimento centrale a Roma_, a cui come a corte suprema, vengano commessi tutti i rami dell’amministrazione civile e militare, e la sovra intendenza del debito pubblico con attributi adeguati allo scopo salutare ed importantissimo a cui si mira. Quanto più cotale istituzione farà pruova della propria indipendenza e dell’unione del governo collo stato, tanto più corrisponderà alle benefiche intenzioni del sovrano ed alle aspettazioni del pubblico. Ma per giungere a questo punto bisogna eleggere dinfra i consiglieri provinciali uomini atti a costituire una _Giunta dei Consiglieri di governo, o un consiglio amministrativo generale. Tale Giunta sarebbe parte d’un Consiglio di stato_, i membri del quale verrebbero scelti dal sovrano d’infra gli uomini più ragguardevoli per natali, ricchezze e talenti. Senza uno o più stabilimenti centrali di questa sorta intimamente collegati colle persone più notabili d’uno stato doviziosissimo, come questo è, di elementi aristocratici e conservatori, è manifesto, che la natura d’un governo elettivo priverà inevitabilmente le miglioranze, che faranno la gloria immortale del regnante Pontefice, di quella stabilità, che è tanto instantemente domandata dal popolo, stabilità, la quale sarebbe tanto più ferma, quanto più i beneficii largiti dal Sommo Pontefice fossero pregevoli e grandi.» Il Papa rigettò apertamente questo memorandum, malgrado che il cardinale Bernetti avesse già nell’aprile del 1831. assicurato i sudditi Pontificii, che un’era nuova nello stato di S. S. avrebbe incominciato, da cui ogni possibile prosperità si avrebbe a diritto aspettata il popolo. Ma un esito simile ottenne la protesta fatta dalla Francia alla S. Sede nel 1832. quando mandò un’armata in Ancona per ecclissare l’influenza Austriaca, e per costringere il Papa, _secondo disse Perrier stesso nella seduta della Camera il 7. Marzo 1832, ad introdurre nell’amministrazione del regno miglioramenti reali e certi, cioè tali che costituissero la sicurezza della santa Sede sopra basi più salde, che quelle d’una continua repressione, ed attutassero permanentemente la tranquillità delle popolazioni, soddisfacendo ai loro legittimi bisogni ed ai giusti desiderii_. Bologna, Ancona, Perugia, e la Romagna in seguito del niun movimento che il Governo si dava per compiere le sue promesse, avanzarono altre proteste coll’appoggio or dell’Inghilterra, or della Francia, ma sempre trovarono sorda alle loro dimande moderatissime l’ostinata Roma, dir voglio il Papa, il quale quando diè a conoscere d’aver inteso la loro voce, ristrinse e ritirò con più forza le redini del governo, anzi di rallentarle; e voi potete speranza commettere nella virtù delle proteste? Oh scusatemi vi mostrate troppo nuovo della storia nostra moderna, che a mille ve le porge sottocchio e sempre mal riuscite. D’altronde come mai potete trarvi a credere che da piccolissime riforme le quali s’ottenessero a forza di proteste, si possa giungere a quelle grandi mutazioni di cose che fanno di mestieri per ottenere la nostra libertà? Niuno vi niega che tali mutazioni non possono effettuarsi in un momento, ma tutti convengono altresì che con una ben preparata e ben condotta sommossa solamente ciò possiamo conseguire. Nè bisogna credere che una sommossa sia opera come voi osservate d’un momento, opera d’un momento è lo scoppio, ma il concepimento d’essa, il disporvi gli animi delle masse, l’orditura della tela, l’apparecchio morale e materiale dei mezzi, son cose che esigono tempo, e se si fanno in segreto non pertanto noi possiamo considerarle come frutto di pochi pensieri. E tanto nell’ultima sommossa di Rimini come in tutte le altre che la precederono ebbe luogo questa lunga opera di preparazione; solo convien dire che i capi o per imprudenza o per inesperienza non valsero a coronare le loro fatiche colla gloria. Però tutte queste fallite sommosse, tutti questi sagrifici, tutti questi tentativi, che non produssero che male in apparenza, credetelo a me ed ai più che senza offendervi in tali cose vedono più addentro assai di voi, sì tutti quei miseri fatti che accrebbero le nostre sciagure sul momento, hanno giovato mirabilmente a disporre la moltitudine, a rendere più sentita l’onta della nostra bassissima servitù, a fare più caro, più vagheggiato, più operoso e più esteso il pensiero della rivolta, della indipendenza. Cosicchè è una vera follia, per non dire sciocchezza madornale, l’insistere vostro a persuadere gli italiani, che essi hanno il _coraggio fisico e manesco_, e non il _coraggio morale_, il _coraggio civile_: date loro vi ripeto un capo, ed essi vi insegneranno col fatto che l’unica via a battersi per rigenerare il loro paese è la sommossa, che sono gesuitici i vostri consigli, che le vostre parole sono specchi fedeli non dei vostri pensieri, dei vostri affetti, ma sì di quelli del Balbo e della privilegiata sua setta, che insomma sono utopie la via delle proteste, la via di _rassegnarsi_, di _saper soffrire_[3], e di _sapersi sottomettere ai nostri governi_, le quali voi preponete; per non chiamarle vere ingiurie al senno dei vostri Italiani, giacchè con ciò li si suppongono tali da appigliarsi ad un partito che invece di condurre a vita novella, li menerebbe alla disperazione, a totale ruina, a morte. Perocchè ogni passo che voi credete di fare innanzi coll’ottenimento di qualche piccola riforma, ammettendo che i nostri governi siano abili un giorno a darne qualcuna, sarebbe mosso indietro, sarebbe un puntello di più a consolidare e folcere il trono della tirannia, un ostacolo che essi stessi gl’italiani si metterebbero avanti al loro cammino, verso cui avviati come sono, dicerto non s’arrenderanno giammai al vostro avviso d’imitare gli abitanti della Russia, e della Germania, locchè suona agli orecchi di chi ha una dramma di buon senso, egualmente che le seguenti parole: _aspettate Italiani, non operare, Iddio tutto vi manderà quello che bramate_,[4] affè che i Russi e Germani sono felici!!! Siate adunque persuaso che gl’italiani hanno più il coraggio _morale_ che non il _manesco_, il quale ultimo se avessero avuto in maggior grado non sarebbero stati sì moderati in tutti li loro movimenti, e forse forse ci troveremmo meglio assai: ponderate tutti i casi rivoluzionarii della penisola antichi e moderni e poi vi sfido a durare nella vostra sentenza, ma soprattutto meditate quelli del ventuno, del trentuno, e del trentatre andati a male per la stessa loro generosa natura, chi può niegare in questi moti il coraggio civile agli Italiani? chi può niegare che i Napoletani per esempio se fossero stati nel trentuno meno moderati, non generosi, a quest’ora avrebbero colla certa loro salvezza riacquistata eziandio quella dei loro fratelli? ma essi vollero mostrarsi grandi fuori di tempo, abborrirono dal versare il sangue Borbonico, ed un tal risparmio ebbero a pagare col sangue di mille martiri, col prezzo della libertà della lor patria, della intiera nazione, perchè dalla loro indipendenza nasceva quella indubitatamente di tutti gli altri paesi della penisola,[5] i quali eran tutt’occhio ed orecchio in attendere l’esito della loro sollevazione. Voi adopraste Massimo nel vostro libro sicome fanno i poeti nei loro carmi, ed anche tra essi i sommi, i quali portati dalla fantasia, abbarbagliati spesse volte dalla prima immagine, vinti dalla prima impressione, sagrificano all’immaginario il vero reale; il perchè da un sol lato guardano i poligoni delle cose, e larveggiano la storia col velo della favola, nell’istessa guisa che alcun metafisico annebbia la politica coll’utopia. Ma di tutti gli errori della vostra scrittura, che io ho toccato, e potrei ancora toccare non è minore quest’altro che per la sua importanza non voglio tacere, e con cui do termine alle osservazioni in che vi volli trattenere. Secondo voi noi dovremmo taciti aspettare l’occasione propizia per operare, e non far altro che gridare in ogni modo, in ogni tempo contro l’usurpazione straniera del dominio sulle lombarde e venete contrade:[6] le quali parole chiudono in se due pensieri, il primo di stare in attenzione come gli Israeliti presso a poco del loro Messia, il secondo di fare una cosa impossibile, ed impossibile è certo non dico lo scrivere, ed il parlare dell’attuale prepotenza dei Tedeschi sugli Italiani, ma nemmanco si può parlare in loro risguardo dei più noti fatti della storia antica, essendo pei nostri governi il toccare il Tedesco la medesima cosa, che noi toccassimo e ferissimo il loro cuore, tutto sperando il loro sostegno ad ogni rischio nelle cento migliaja di baionette, con che dicono, possa, visto non visto, amorevolmente visitarci. In quanto all’opportunità dell’occasione anche Livio parmi avere scritto, _che le cose sogliono consigliare agli uomini, e non gli uomini alle cose_, ma questo detto non vuole essere litteralmente interpretato; perchè del resto andremmo contro al nostro passato che ci prova con mille fatti, ciò essere vero, e verissimo se si parla di mediocri ingegni, falso e falsissimo all’opposto dove si tratti di ingegni sublimi. Chè gli uomini d’alto intendimento sanno preparare le circostanze, ed avvicinarle quando sono discoste, creare dal nulla i mezzi, spiare, provvedere, e dominare il futuro. Ciò posto chi non vede quanto più giusto, più opportuno non sarebbe questo consiglio di pensare, meditare, progettare tutti assiduamente giorno e notte, al come meglio si possa mettere ad effetto la determinazione di crollare il giogo ormai troppo per noi vergognoso? il dubitare un solo istante che fra venticinque millioni di Italiani non si trovi un ingegno da tanto da condurci tosto all’impresa, da imitare tanti altri eroi dei nostri maggiori, da fare altrettanto di quanto fece Alberico da Barbiano, riformatore della milizia Italiana nel medio Evo, allorchè indispettito delle stragi, che i Brettoni guidati dal Cardinal di Ginevra menarono sui Cesennati, e su varii altri popoli d’Italia, gridò che _il sangue italiano voleva essere vendicato col sangue Brettone_, e detto fatto, compiè il suo proposto, onde il suo nome splendè non come una meteora, che veduta dispare, ma come un astro la cui luce si mostra continua sul nostro orizzonte. In lui ispirandosi ogni cittadino, i nostri uomini d’armi, e a emulare prendendolo il capitano che li dirigerà nelle marcie, non potremo tardare di vedere il sangue dei martiri Piemontesi, Toscani, Napoletani, Parmigiani, Lucchesi, Modenesi, Romagnoli, Veneti e Lombardi, appieno vendicato col sangue dei loro oppressori, e spiumata la feroce aquila Tedesca furente fermare il suo volo, e rivolgere per rabbia contro di se i predatori suoi rostri, li voraci suoi artigli. Altre cose, come dissi sopra, mi resterebbero tutta volta ad osservarvi sul vostro libro, ma qui fo punto ossia per amore in brevità, ossia per potervi entrare d’altre cose più presto. Dalle mie parole però vi sarete potuto addare, non esservi male apposto quando in chiudere il vostro opuscolo scrivevate: _il lettore giunto al termine del mio libro dirà di me, ciò che io dicevo a me stesso prima di scrivere: non avere io, studioso non di scienze, ma d’arti, sapere e mente che basti a trattare profittevolmente materie politiche ed economiche di tanta difficoltà_. Grande vero! anzi il solo contro cui nulla avrei a notarvi, peccato che non ne foste davvero prima convinto! avreste evitato a voi la pena infruttuosa di dettare quel libro, a me quella di rispondervi! Se nonchè forse il tutto sarà per lo meglio, giacchè mi avete porto con esso il destro di dire qualche verità, la quale certo non disutile è per tornare, avendo per mira il mostrare come male sia fondata e pericolosa ogni speranza che si ripone in Carlo Alberto a proposito della rigenerazione del nostro paese, come da sciocco, da ostinato, da imbecille ne sia il solo pensiero. DELLE SPERANZE D’ITALIA RIPOSTE IN CARLO ALBERTO. CAPITOLO UNICO. L’Italia, simile ad un corpo che un altro ne move, e perde tanto di movimento, quanto ne acquista quello mosso per esso, venne meno tanto in vita, in gloria, in sapere quanto in ciò fece progredire le altre nazioni, le quali tuttochè ammaestrate, incivilite, e fatte forti e grandi dalla sua storia, dalla sua luce, e dalla sua virtù, pure sconoscenti anzichè stenderle il braccio a sollevarla dal fango, tutte le congiurano contro, e dopo averla immiserita, insanguinata, e ridotta fra i più terribili ceppi, torre perfino le vorrebbero il nome. Ma per fortuna questa illustre donna, questa illustre maestà, sebbene lacera il manto, scarmigliata le chiome, carca di catene, spolpata e succhiata dall’arpia Tedesca, ha per anco tanto di forza sparsa per le illividite e rotte sue membra, che raccogliendola e concentrandola al cuore ad un possente grido che la scuota dal sonno e la chiami a virtù, è tuttora capace di far tremare l’universo, di farsi rivedere madre d’ogni bella e grande opra, reina su li suoi tiranni, e sulle sue rivali. Onde se mai evvi una speranza, che noi figli di lei possa sorreggere nel cammino, in cui andiamo tentoni brancicando verso il venire; se mai evvi cosa che ci torni a conforto nella prostrazione in cui ci giaciamo; se mai una voce ci suona amica all’orecchio, ci scende nell’imo del core, ci commove, e ci sprona a virtù, è senza dubbio la parola della verità, che ogni giorno va acquistando valorosi banditori, è la tendenza che si palesa nelle giovani menti per tutto che sa di nobile, di grande, e di generoso, è il bisogno sentito di dar bando ai lamenti e di operare ormai universalmente fra il popolo; in cui solo deggiono appuntellarsi le nostre speranze, perchè in lui solo risiede la forza, solo in lui la sorgente si trova di sublimi, di eroiche virtù, in lui solo può essere lo istromento per risorgere a vita, a prosperità, a grandezza. Noi per lo passato doppio martirio avevamo a pruovare, l’uno è la vista che il numero dei martiri della patria carità a quando a quando s’andava crescendo per la ferina avidità del sangue dei nostri Tiranni, l’altro più atroce ancora, più straziante, e più tormentoso e terribile, vuolsi dire l’acuto e continuo dolore che un’anima generosa scote nel vedersi non solo mal corrisposta nelle sue mire, ma ne manco dagli altri tampoco compresa ne’ suoi disinteressati progetti, ne’ suoi santi sagrificii, e la dio mercè quest’ultimo più non dobbiamo sopportare checchè voi Azelio col vostro Balbo ne pensiate in contrario. Sì ci deve goder il cuore, che il popolo già abbia imparato la fonte salutare, già sia corso ad attingervi l’onda vitale, e dimostro abbia di non volersi sì presto saziare; che l’attenzione ai grandi movimenti destati dalla civiltà si cominci a manifestare anche nelle officine e negli abituri tanto in villa che nella campagna; che anche le masse più inerti ora si agitino, e che per rendere proficua quell’agitazione nient’altro abbisogni fuorchè un impulso. Ma quest’impulso vuolsi dare da noi, senza il concorso di principe italiano, senza lo sussidio dello straniero, gli uni e gli altri, se ci volgiamo un momento al passato, ci tradirono sempre. Sarà per interessarsi a nostro pro l’Austria, che su tutta la penisola vorrebbe distendere le ladre sue zanne? forse l’Inghilterra la quale in Malta si governa prepotentemente del pari che i nostri Principi in Italia, la quale giunse ad annientare in quell’isola tutta cosa, la quale potesse ricordare agli abitanti d’appartenere alla nostra nazione? Perocchè dal _Giurì_ in fuori non v’ha legge, non v’ha regola, nella procedura di qualsiasi atto del governo, non v’ha instituzione che comprovi tampoco la libertà Britanna, che non accusi anzi il più assoluto dispotismo. L’università ridotta al punto che qualsiasi ginnasio più piccolo, peggio in piedi è a quella superiore immensamente per ogni risguardo, l’istruzione bandita, l’educazione affidata da un anno ai Gesuiti, il commercio languente per la mala fede dei Negozianti, la religione manomessa dai protestanti, e dai gesuiti, che tra loro fanno a gara in essere più generosi, e larghi. La persecuzione agl’Italiani portata ad un grado incredibile, perchè quivi non si fermino, e non possano riaccendere lo spento amor patrio[7]. Libertà di stampa per lanciar contro il prossimo, villanie, insulti, e calunnie, per propagar l’immoralità, e l’odio all’Italia, ma non per discutere su cose di scienza, di letteratura, e di politica; che anzi cose pubblicate in Piemonte ed in Lombardia coll’approvazione della censura non poterono quivi venire ristampate, e gl’Italiani emigrati dal governo fortemente proibiti di pubblicare checchesia dal Novembre del 1845, contro il qual ordine si può leggere l’inutile protesta fatta subito dopo dal migliore, anzi dall’unico buon giornale il Mediterraneo; e soppressa la cattedra di Storia, e di Economia politica perchè tendenti a liberalismo, e le altre rette da persone pressochè imbecilli; insomma barbarie, oppressione, e schiavitù in tutto e per tutto. Forse la Russia parteggierà la nostra causa, il cui padrone giunse ad uno scalino più su di tutti gli altri tiranni, tenendo schiava, non che il popolo, la stessa nobiltà? Forse la Prussia il cui Re tiene a bada i suoi sudditi con rinnovare le promesse a quando a quando di concedere le riforme chieste al suo padre, e con promoverle giammai? Forse la Francia che sempre ci frodò e perfino quando le sarebbe tornato a grandissimo suo vantaggio il darci il suo patrocinio? Forse la Spagna tuttora incerta sulla via che ha da battere per risanarsi, e che troppo per conseguenza ha da pensare per se? Io non veggo in verità su chi si possa riposare da noi, giacchè le Nazioni che potrebbero non vogliono, quelle che vorrebbero non possono, e quando fia che possano anch’esse più non vorranno giovarci. Tanto è vero che l’invidia, la gelosia può dappiù sull’animo degli uomini quasi sempre della generosità!!! Ma se non dobbiamo confidare nel braccio degli Stranieri, tanto meno poi abbiamo seguire il consiglio di Voi, di Balbo, di Gino Capponi, e di tutta la schiera dei moderati, che per una strana combinazione rilevo appartenere tutti alla prosapia de’ Semidei, alla aristocrazia della nobiltà, che vorrebbesi rimettere in piedi negli altri paesi d’Italia, siccome serbasi ancora in Piemonte, eccettuatone un solo, che non nomino perchè porto fiducia presto si ricreda pubblicamente, ed il quale è del ceto secolare, dir voglio del popolo, e questi fu, quantunque avveduto e di felicissimo ingegno, tratto nella rete, men che egli e noi ci pensassimo; sì, tanto meno poi abbiamo a seguire il vostro consiglio e riporre la nostra speranza nella confederazione dei nostri Signori. Ogni confederazione dei Principi Italiani, oltre ad essere difficilissima sia perchè non ci pensano e non ci vogliono menomamente pensare, sia perchè niuno fra essi si eleva per energia d’animo dal livello dei vili, pronti ad adulare sempre a chi loro soprasta, e ad incrudelire contro chi loro obbedisce, e non mai a difendere i propri diritti con calore, ed a tutelare gli altrui, non potrebbe poi effettuarsi che a danno della nostra nazionalità, il perchè con apportare qualche piccola modificazione governativa nel nostro paese troncherebbe affatto ogni via alla nostra indipendenza, al risorgimento della nostra libertà; un vetro ustorio tutti sanno concentrando e condensando i raggi solari ne avviva e centuplica la forza e la luce, il medesimo opererebbe in nostro danno una confederazione Italiana, perchè in un punto adunando e raccogliendo le forze dei nostri Tiranni, accresceria di peso quel giogo che segnatamente con tutta la lor possa di volere e di mezzi premono sulle nostre cervici. Sarebbe buona tal confederazione nel caso che i nostri Principi avessero buone intenzioni verso i loro sudditi, e fossero impediti a metterle in pratica dall’influenza, dall’oppressione straniera, allora unendosi potrebbero come suol dirsi, tener al Tedesco il _bacino alla barba_ e conseguire l’intento loro; ma questo caso non è il presente, la tirannia dei nostri principi supera quella dello stesso Tedesco, quella di qualsiasi oppressione mai abbia avuto l’Italia od altra nazione nei tempi passati, ed abbia, e possa avere nei giorni avvenire; ed il darsi fra loro la mano in ogni altro caso torna peggiore alla nostra condizione presente futura che non l’istessa attuale schiavitù in cui siamo, la qual cosa parmi abbia dimostrato assai bene il Ricciardi nel suo libro che non è molto pubblicò in Parigi.[8] E quello che non possiamo, non dobbiamo sperare da molti in massa, potremo e dovremo sperare da uno? quello che uniti i nostri Principi non hanno il coraggio, la volontà, ed il solo pensiero di fare, potrà uno d’essi di per se aver tanto di ardire da tentare, e tanto senno da volere? Lasciamo che parecchi d’essi brutti di danaro, privi di milizie, ed alcuni imbecilli del tutto, che in verun modo anche volendolo non potrebbero metter mano ad una cosifatta impresa: sarà il Papa colui che porrassi alla testa degl’Italiani, il quale crede dovere suo strettissimo il seguire l’esempio de’ suoi antecessori? Sarà un Gregorio XVI. il quale fa a gara col Re di Piemonte, col Re di Napoli per ottenere la gloria d’essere il più famoso fra i Tiranni suoi contemporanei in Italia, che con valore gli è da que’ due disputata? Davvero non parmi possibile che vi siano taluni che idoleggiano una tal idea, come non parmi possibile potersi scrivere anch’oggi in discolpa dei Papi rispetto alle vicende antiche del nostro paese; riandiamo adunque un momento la storia. Chi furono se non i Papi che divenuti capi politici, datisi a combattere, trovatisi in pericolo, abbandonati dai Greci si diedero in braccio dei Franchi, e comprarono la sovranità dell’esarcato, e della Pentapoli col prezzo enorme dell’indipendenza della nazione? Chi chiamava per ben due volte Pipino mentre duravano le lotte col Longobardo Astolfo? Papa Stefano II. Chi traeva sull’Italia le armi di Carlo Magno? Papa Adriano I. Chi chiamava le falangi barbare del Sassone Ottone contro un Re italiano? Papa Agapito. Chi le richiamava contro gl’istessi Romani? Papa Gregorio V. Chi commoveva primo nelle viscere italiane il tosco guelfo e ghibellino? Papa Alessandro II. Chi invocava il Tedesco figliuolo di Federico Barbarossa contro l’Italiano Tancredi Re di Napoli? Papa Celestino III. Chi ritraeva Carlo d’Angiò con armata di saccheggiatori barbari contro il Napolitano Manfredi? Papa Adriano IV. Chi poi alla sua volta traeva sulla misera Italia, e contro Carlo d’Angiò il Tedesco Imperatore Rodolfo? Papa Adriano V. Chi richiamava con altre e più infeste armi Carlo d’Angiò contro la Romagna? Papa Martino III. Le stragi civili fra i Colonna e gli Orsini donde ebbero l’origine e ’l fomento? Da Papa Bonifacio VIII. Chi alzava contro le vite e la libertà degli italiani Lodovico di Baviera? Papa Giovanni XXII. Diremo noi le orrende sciagure tratte su l’Italia dal Guelfismo seduto in Avignone, quando per sue politiche passioni faceva mettere a ruba e a sangue queste nostre già tanto misere contrade per mano di scorribande tedesche, brettone, mandate a combattere i Principi Italiani? Chi chiamava lo straniero Luigi d’Angiò contro il Re di Napoli Ladislao? Chi contro il medesimo da poi l’Ungherese Sigismondo condusse? Papa Giovanni XXIII. Seguendo di tal passo verremmo fino al termine della istoria italiana, di cui qui non siamo che ad un terzo, verremmo ai tempi moderni, al giorno che corre, e sempre toccando con mano che le precipue nostre calamità originarono dal Governo Pontificio. E noi c’intenderemo con alcuni a riporre la nostra fiducia nel Papa? In un Gregorio XVI, che tutti i suoi antecessori non solo imitò ma superato ha di gran lunga nell’incatenare ed opprimere la patria nostra? Ah non fia giammai! Torciamo lo sguardo da un uomo che dovrà essere esecrato per tutte le età, in tutti i paesi ed in tutte le lingue, e che anima e corpo dovria piombare tosto nel centro d’inferno a formare il zimbello, anzi il disprezzo degl’istessi Demoni, perchè non vada del tutto a ruina quell’augusta religione, di cui senza intenderla nelle sue sublimità, e ne’ suoi doveri è destinato ad esserne il sommo Gerarca; imitiamo i Longobardi, i quali noi chiamiamo barbari, ma intanto essi c’insegnano col loro esempio che vuolsi rispettare il Papa, ma si deve ad ogni patto disgiungere la forza dei due poteri. Veniamo al Re di Napoli, sarà forse costui che vorrà parteggiare la causa Italiana? un Ferdinando sulla cui faccia è ancora fresco e fumante il sangue dei martiri d’essa, dei fratelli Bandiera? Un uomo che inventò supplizj, torture, e prigioni di nuova foggia, da disgradare tutti i già conosciuti tormenti in atrocità? Un uomo che quando fu costretto a perdonare, e mutare la sentenza di morte in un carcere a vita, volle montassero gli incolpati sul patibolo e tra le mani del Boja rendessero grazie alla sua clemenza?[9] Rispondino per me i suoi sudditi sì dell’una che dell’altra Sicilia, fra cui se alcuno pruovami trovarsi un solo il quale ciò pensi, mi lascio tagliare per la mia asserzione in contrario la lingua. Sarà adunque il Re di Piemonte, sarà Carlo Alberto? Sì, sì, mi rispondono più voci, sì, sì, sento ripetermi in eco dai liti nostri, sì, sì mi rispondete voi eziandio o Massimo. Ebbene eccomi alle pruove, che con voi disinganneranno tutti gli altri Italiani nel cui capo ha potuto trovar nicchia una sì stolta, sì pazza opinione. In verità più io ci penso, e meno posso darmi ragione dei motivi, che a quest’ora possono ancora indurre in errore gl’Italiani rispetto alla volontà, al coraggio, al carattere di Carlo Alberto. Che cosa ha egli mai fatto fin’ora da appalesare la più piccola disposizione ad un tal passo? abbandonò forse la verga del dispotismo con cui flagellava li suoi sudditi? Si pentì forse del passato suo infame, o mostrò tampoco di voler coll’avvenire rimediarvi? Perdonò a suoi compagni del ventuno sì malvagiamente abbandonati da lui? Richiamolli ne’ suoi stati senza costringerli ad avvilirsi a giuramenti ai quali niun uomo di carattere potrà mai sottomettersi? ha mai manifestato fermezza di volere almeno tanta, da non farsi chiamare una frasca, da non lasciarsi condurre pel naso ora da uno, ora da un’altro de’ suoi ministri? Si è mai slacciato dal guinzaglio con che i gesuiti da pezza lo muovono a loro talento? dalla museruola che i suoi grandi di corte gli posero alla bocca per lasciarlo, e farlo parlare solo quando loro torna a vantaggio? ha mai frenato la prepotenza della nobiltà piemontese? ha mai seguito l’esempio de’ suoi maggiori in cessare ogni vessazione contro i Protestanti, e promossa la tolleranza religiosa, che Emmanuele Filiberto loro usava? ha concesso forse tanto agli Ebrei da non tentar di affogarne nella miseria e nella immondizia la generazione? ha mai egli resa più libera, più facile l’istruzione de’ suoi sudditi? ha dato leggi quali si esigono dai tempi, giuste ed uguali per tutti alli suoi popoli? Rispondetemi o Massimo voi che tanto v’intesi a sfiatarvi in commendarlo, che di tutto questo egli operò anche in minutissimo grado? nulla, nulla affatto, se non che passionato altrettanto che pel inginocchiatojo e pel Crocifisso, per la milizia, mise su un corpo di truppe che non stanno forse al disotto di verune altre per la loro perizia in ogni sorta di guerreschi esercizi, e le quali sono una vera peste pel paese stante la loro oltracotanza, e le spese che si richiedono pel loro mantenimento, cose che volentieri sopporterebbero i Piemontesi, qualora potessero sperare tampoco di vederle muovere per la causa italiana, ma che invece lamentano in continuo non rilevando in esse altro che _polvere pe’ gonzi_, ed un’inutile ambizione. E lo stesso vuolsi dire del patrocinio che egli dimostra per le belle arti, il quale gli procaccierà qualche lode, farà obbliare per qualche momento le tante sue colpe, ma nell’istesso tempo prova mirabilmente la sentenza d’Angiolo Brofferio che le belle arti più fiorirono, e più fioriscono in un paese quand’esso più è stretto dai ferri della schiavitù. Ma perchè non crediate asserisca ciò gratuitamente entrerò in materia più assai che non dovrei con un altro, il quale avesse qualche cognizione del governo sardo. Dalle leggi, e dal modo di farle osservare più che non da qualsiasi altra cosa si può conoscere lo stato d’un governo. Però che nelle leggi sta il vero bene degli uomini, dalle leggi la volontà degli uomini retta e scevera da passioni vien dichiarata; perchè le leggi natura dapprima le stampava ne’ cuori, ed appresso la società scrivendone i codici alle varie condizioni de’ suoi bisogni le attemperava; perchè esse sono il voto del popolo o interpellato o presunto, il voto del popolo, che a ben proprio e degli altri patteggia limiti e facoltà, premi e pene consente. Un codice infatti nuovo di leggi ha lo stato di Sardegna per opera di Carlo Alberto, ma quali sono queste leggi? sono quali abbisognavano? vi risponda per me l’ombra venerata del Conte Barbaroux, il miglior ministro che abbia mai avuto, e mai incontrerà d’avere il nostro paese; questi, tutti sanno, aveva avuto dal Re l’incarico della compilazione del nuovo codice, e come uomo profondo quant’altri mai sia stato nelle scienze legali, d’alta nobiltà d’animo, di vastissime viste, e dei più sublimi intendimenti, e fornito a dovizia di tutte quelle eccellenti qualità che si richieggono ad un magistrato, rivolse ogni cura all’opra, ad affrontare contrasti, ed indicibili fatiche, e non badando nè a sudori, nè a sagrifici, nè alle nimicizie, od agli odii che si traeva contro principalmente dalla nobiltà, condusse il suo lavoro a termine, e preparato aveva allo stato Sardo un codice, che sotto qualsiasi punto si considerasse non poteva che commendarsi, perchè a tutto aveva avuto e mente e coraggio di farsi incontro, a tutto provveduto come si doveva da un uomo pari suo che mettesse la giustizia in cima d’ogni sua azione, d’ogni suo desiderio, affetto, e pensiero. Terribili guerre e pubbliche e private, che discendevano fino alla viltà della calunnia egli ebbe a sostenere per fare che il suo codice fosse appruovato; non è martirio che si possa mettere in confronto di quello sofferto da quella grand’anima per difendere ogni sua proposizione, combattere ogni malvagia altrui interpretazione, appianare ogni contorcimento fatto alle sue idee dai suoi nemici, ma alla fin fine credevasi in porto, confusi i suoi oppositori e messa berta in sacco, Carlo Alberto gli dava solenne parola che il suo codice sarebbe stato adottato per gli stati senza modificazione di sorta. Passò qualche tempo ed il codice del conte Barbaroux compare alla luce mutilato, innovato, manomesso da capo a fondo dai nemici di lui per modo, che egli a tal vista recossi immantinenti dal Re a chiedere licenza della sua carica di _Segretario e Ministro di Stato col portafoglio per gli affari di grazia e giustizia_, il Re lo accolse con amorevoli parole, come sogliono tutti i traditori, e non volle permettere che egli si ritirasse dal suo impiego; cosicchè il ministro ricondottosi a casa straziato nell’animo, e col pensiero di quell’inganno che gli bolliva in mente, poco andò che divenne taciturno, incerto nel guardo, temente di tutti, e facile a soliloqui che pareva dessero a sospettare gli fosse per dar volta il cervello, di fatto un giorno dalla somma galleria del palazzo del ministero si gettò giù nel sottostante cortile e rimase freddo, sfracellato sul colpo con dolore acutissimo di quanti nel nostro paese sono capaci d’ammirare un uomo che per ogni rispetto grande si poteva appellare.[10] Ma fosser almeno fatte osservare egualmente per tutti le leggi d’un tal codice, sarebbe sempre minore il male! che giova la legge se altri non vigila a porvi mano? opera in che poggia la ragione ad un tempo e la origine de’ governi, sia che molti o pochi, od alcuno soltanto ne pigli le redini; origine e ragione, che tutta consiste in ciò di far valere l’autorità sacrosanta delle leggi. E come le leggi a beneficio del corpo sociale furono e sono date, chiaro è la istituzione de’ governi a ciò propriamente essere destinata che per via delle leggi procurino il bene dei popoli; chè non i popoli a beneficio dei governi, ma i governi a salute dei popoli sono posti ed ordinati. Ed in Piemonte voi non potete niegarmi che per molti non ci sono leggi; che i Nobili possono fare da più o meno quel che più loro torna a bene e a piacimento; che l’integrità d’animo rispetto a molti rappresentanti della Sovrana Autorità non è pure conosciuta; che il militare è quivi odiato perchè oltre ogni credere prepotente, ed insultante. Ma ditemi, vi prego; qual è il vero bene dei popoli, a cui procurare sono promulgate le leggi, o delle leggi detti custodi, ministri e vindici sono i magistrati, bracci, o menti altrettante dei Governanti e dei Re? Questo bene è giustizia, la quale tiene bilancia pari e diritta, ond’abbia ciascuno il debito suo: giustizia che in ogni cosa vuol salvo l’ordine, che i diritti alterna coi doveri, e questi con quelli ragguaglia e misura; giustizia che madre è di concordia e di pace, che fa le nazioni fiorire, che è stabile fondamento dei Troni, che di tutte sociali virtù è sodo principio, caldo eccitamento; giustizia che l’amore di noi coll’amore dei nostri simili, le private ragioni con le pubbliche, l’autorità coll’obbedienza, il servigio coll’impero, gli onori coi carichi, le privazioni coi compensi, l’opera colla mercede in bell’accordo stringe ed avvicenda; giustizia che il cittadino ed il soldato, l’uomo del campo e l’uomo del foro, il sacerdote ed il magistrato, il suddito ed il principe, tutte le condizioni, tutti gli stati con bella reciprocanza di vincoli congiunge, e rende la società una famiglia i cui membri son tutti fratelli. Adunque il grande ufficio dei governi dimora in ciò che vegliando le leggi procurino la giustizia, e con essa la conservazione, e quanto è dato la perfezione, il miglioramento del corpo sociale. E quest’ufficio è desso compiuto in uno stato, dove come nel nostro da certi individui si possano commettere ogni maniera di prepotenti azioni? dove la così detta _via economica_[11] sia come nel nostro cotanto in uso? dove non s’abbia dai governanti tema alcuna di abbandonare, tradire, ed oltraggiare gli interessi de’ sudditi per non curanza, per favore, e per orgoglio? Dove non si voglia menomamente intendere che i rappresentanti ed i ministri della pubblica autorità deggiono essere in pari tempo i rappresentanti ed i ministri della pubblica virtù, che la loro potenza non è altro che un augusto dovere? Dove il Principe il quale porta in mano la sacra coppa che racchiude i più gran benefizi dell’umana società, la sicurezza e la pace, pare goda di aizzare le discordie, li odii delle classi, delle provincie, delle masse, non meno che delle famiglie? Dove insomma non vuolsi capire che il giusto operare, il giusto vivere mentre ne’ privati cittadini è un limite, un freno, diventa nei governanti una potenza attiva, energica, infaticabile, austera insieme e generosa? E che ciò sia vero, e che questi ed altri abusi corrano nel nostro Piemonte, potrete convincervi anche voi se mi terrete dietro ancora qualche poco. La nostra aristocratica nobiltà per esempio è al punto da nulla invidiare al feudalismo antico, prepotenze da una parte, prepotenze dall’altra, e sempre impunite, sempre invendicate, e guai a chi osa torcerle un pelo, anzi a farle rimostranze contro, anche moderatissime! Un conte di Robilant marito della prima Dama d’onore della Regina, colonnello delle Guardie uccide un suo servo col bastone, perchè restio al suo dovere; con una pistola un’altra volta manda le cervella in aria ad un altro, perchè osa rispondergli; dalla finestra fa saltare giù una cameriera che si rifiuta alle sue voglie, e per castigo di tutte queste barbare azioni indovinate Azeglio qual sentenza abbia avuto contro dal Re? otto giorni di reclusione ne’ suoi appartamenti, ed il consiglio di dare qualche sovvento ai danneggiati. Una marchesa di Bernessi ha ottocento mila franchi di debito, i creditori le fanno pressa, il Re mosso a compassione di lei con un motuproprio ossia _biglietto regio_ la dispensa di pagare chicchessia. Un marchese di Cavour muore, lascia un miglione e più di franchi di debito, il Re mosso a pietà della situazione del figlio, gli concede un biglietto regio di dispensa, ed i creditori restano belli e pagati senza squilibrio della sua famiglia: almeno di questo privilegio se ne fosse valso in condurre una vita lodevole il marchesino! ma invece si diede in braccio al vizio opposto di quello che dominava il suo padre, all’avarizia, per modochè mentre copre la causa di Gran Vicario di politica e polizia gode la fama di principe fra gli usurai, di vero boja del commercio nelle Piemontesi contrade. Un Marchese di Sommariva, che voi al vederlo lo direste il primo eroe, il primo guerriero del mondo per le mille croci che tutto gli coprono il petto, sappiate che è il più vigliacco ed il più prepotente, e schifoso nobile dei nostri stati; di viltà diede ampia testimonianza allorchè dopo d’avere insultato al segretario della Legazione Francese il sig. Neivs, rifiutò il duello a cui questi con ragione lo aveva invitato, e s’umiliò a chiedergli scusa quando poi l’ambasciatore di Francia alzò la voce. Di prepotenza, e schifosità mille sono le pruove date nel corso di sua vita ogni qualvolta alcuni osarono presentargli la nota di qualche debito arretrato, che quando meglio si comporta in tai casi è di strapazzare, minacciare, e far prendere a calci da’ suoi servi, i suoi creditori se non sono più che lesti al primo cenno che loro fa, d’infilare la porta ed uscire; e negli stupri, negli adulteri; e negli sverginamenti, nelle quali imprese è diventato sì famoso, che ora è vero timore delle ragazze, delle spose al paese, ove recasi a villeggiare. Eppure quegli non solo andò sempre impunito delle sue ribalderie, de’ suoi infami trionfi sul campo d’amore, ma gode sì fattamente la grazia di Carlo Alberto, che ultimamente lo elesse Generale; che potè anzi perfino il suo ruffiano Bojone far elevare poco per volta al grado di Colonnello d’armata, e di Segretario dell’ordine dei Cavalieri di S. Maurizio e Lazzaro! Un conte di S. Giorgio tenente nel reggimento di Piemonte Reale, spara una pistola nel volto ad una signora perchè non vuole accettare la sua dichiarazione d’amore, e gli rigetta una lettera, ed ha per punizione il consiglio di recarsi in permesso onde evitare il mal’umore e la vendetta dei congiunti di lei! Un ministro degli affari esteri, il conte Solaro della Margherita, dopo stare gran parte della mattina inginocchiato avanti gli altari nella chiesa dei frati della compagnia di Gesù, ingravida la superiora delle suore del Santissimo Sacramento, e per evitare lo scandalo l’induce a fuggire in compagnia del cappellano con settanta mila franchi che stavano in cassa del convento, li munisce di passaporto ministeriale, sparge la favola che ardenti di reciproco intenso amore se ne erano iti in Isvizzera, fa eleggere un’altra superiora, fa riempiere nuovamente la cassa dalla bonarietà della rimbambita Regina vedova Maria Cristina, ed ha complimenti di vera filantropia dal Re Carlo Alberto! Un avvocato Cunietti amoreggia con un’amabile figlia del ministro di Olanda, ne è corrisposto, e la ruba; il padre desolato reclama al trono di S. M. che gli sia usata giustizia, si frappongono i Gesuiti a cui ricorse il giovane, onde ottiene nulla; si ritira presso la sua nazione rigettando per viaggio la gran croce dei Cavalieri di S. Maurizio e Lazzaro, che il Re ebbe fronte d’inviargli in compenso de’ suoi servigi, quando la figlia vien messa nel ritiro del S. Cuore di Gesù, e quivi per forza convertita alla cattolica nostra Religione, e maritata quindi con un nobile signore, sdegnando essa d’unirsi in isposa al suo amante perchè conobbelo d’indole malvaggia; il quale per castigo è nominato vice console Sardo in Algeri! mentre tutti li suoi compagni senza demeriti e con molti meriti non hanno impieghi e cariche di sorta. Un Sindaco d’un prefetto sulle fini del Canavese, in vicinanza delle lande di S. Maurizio, dove si sogliono tenere gli accampamenti militari per istruzione delle truppe sarde, ricorre egli in persona al R. Ministero verso l’autunno del 1842 per avere soddisfazione dell’assassinio commesso sulla persona dell’unica sua figlia da alcuni soldatacci, e vien rimandato con le seguenti parole: avete tutte le ragioni ad ottenere quello che dimandate, ma come si fa a conoscere i colpevoli? d’altronde al male più non puossi ovviare, e saria uno scandalo troppo grande il palesare il fatto; ascoltate il nostro avviso, abbiate pazienza, rassegnatevi alla Volontà di Dio, il quale ha permesso, forse per esercitare la vostra virtù, che la vostra figlia facesse quella miserabile fine; d’altronde procurereste un troppo grave dispiacere al vostro Sovrano, il quale tanto raccomanda la moralità nei Soldati. Si ritira il buon vecchio a sua casa, ammala, e muore anch’esso dal dolore della morte atroce della figlia, e dallo sdegno di non vederla giustamente vendicata. Ed il fatto è pure dei più gravi, e dei più imperdonabili che si possano da uomo commettere! Figuratevi! oltrepassavano il numero di dodici i soldati, erano ebbri dal vino ed accesi dalla libidine, veggono la avvenente ragazza sulla porta del giardino che faceva calza canterellando, si avvicinano in bel modo colla scusa di vedere il giardino, ed accorgendosi di non essere veduti da persona viva, l’assalgono, le mettono una pezzuola alla bocca bene stretta, la distendono in un solco, e l’uno dopo l’altro isfogano tutti su d’essa la loro brutale passione, mentre la candida ed innocente giovine rende l’anima al suo Creatore di mezzo alle due porche tra cui l’avevano quegli inumani lasciata. Ma udite, ancora: voi sapete che il Duca di Lucca mandò il suo figlio a compiere la sua educazione in Piemonte: Carlo Alberto lo arruola nel reggimento di cavalleria _Novara_, ed il Principino Augusto esordì da bel principio con ogni sorta di indegne azioni a rendersi ridicolo e sprezzato, a dar saggio di quanto si possa sperare dal suo avvenire, ed il Re invece di correggerlo e punirlo lo premia, e se lo tien affezionato come una volta si teneva la contessa di Robilant, e gli paga tutti i debiti, che a quando, a quando ascendevano ad incredibili somme. Un giorno il Duchino si trovava in una città di provincia, e se non erro in Pinerolo, si reca egli in persona dall’impresario pei foraggi delle truppe, lo rampogna dapprima perchè non gli abbia inviato la provvisione di fieno per venti cavalli, come gli aveva mandato a chiedere, il signor Del-Pozzi che era l’impresario con bella maniera gli osserva esser egli solo autorizzato a suppeditargli la provvista per quattro cavalli dal ministero, e non aver egli inteso di fare un rifiuto a lui, ma sì tanto di scansare il giogo d’un obbligo ingiusto. A ciò l’Altezza Serenissima e Reale minaccia il Del-Pozzi il quale avendo osato ancora parlare, egli vibrogli allora un calcio nel basso ventre, per cui quegli stramazza a terra, ed in pochi giorni morì. Si sparge la cosa, ricorrono ai re i congiunti dell’infelice, ne parlano e romoreggiano i giornali di Francia, e Carlo Alberto regala il _gran collare dell’ordine supremo della SS.ma Annunciata_, al Prode Principe, lo innalza al grado di Colonnello, tuttochè non sapesse star a cavallo, e non s’intendesse nulla, affatto nella milizia, giacchè le sue occupazioni erano da mane a sera di far lo stordito, far all’amore, e far chiasso per lo paese. Vita che conducano quasi tutti i disperati Nobili, Spagnuoli, Portoghesi, Italiani, e Polacchi che rifuggiati in Piemonte ottennero gradi, pensioni, stipendii, onoranze, e tolleranza a tutte le loro vili e vergognose azioni. Eppure se il nostro Re avesse un pò di sale in zucca, torrebbe ben di mezzo un tale scandalo! un tal disordine, che in niun modo gli può convenire!... Ma oltre a cotesti fatti, a cui niuno può muovere un tal qual dubbio, ed a cui potrei aggiungerne mille, ascoltate questo eziandio di recentissima data: un Romano, il sig. T. P. impiegato da dieci anni al servizio del nostro Re, il quale in tutto il volgere di questo tempo mai diede motivo alla più piccola lagnanza sul suo conto, bene visto da tutta la subalpina gioventù, accolto con amorevolezza nelle più distinte case, giovane gentile, onesto, e del bel mondo, un giorno riceve per mezzo d’una guardia di polizia un biglietto col quale il Commissario Tosi ispettore della bassa polizia lo invitava a passare da lui un momento nella giornata. Egli colla massima premura, di nulla sospettoso, perchè di nulla si conosceva colpabile, aderisce all’invito e si reca al palazzo del comando, dove chiesto del suddetto commissario, che si fa dare dell’avvocato mentre non sa pure iscrivere due parole in ortografia corretta, viene tosto da due birri introdotto in un gabinetto dove un uomo alto della persona, di occhi grifagni, di nera e folte sopracciglia, con calzoni neri, abito bleu, giustapetto grigio di _piquet_ e cravatta bianca ed altissima, sedeva ad una scrivanìa. Questi subito s’alzò al vedere il nostro Giovinotto entrare e presentarsigli umilmente, indi coi più duri modi, colle più aspre villanie, e col più infernale sarcasmo tolse a canzonarlo, a deriderlo più che non a riprenderlo; del qual trattamento chiedendo la cagione commosso, ed indispettito non che maravigliato il nostro signore ebbe delle minaccie in risposta se anco avesse osato dire una parola. Pochi istanti dopo il Commissario si taceva, ed egli credeva, che essendosi isfogato così, l’avria lasciato andare in libertà, epperciò già macchinava in mente di farsi dare, con uno schiarimento, una soddisfazione di simile condotta tenuta contro di lui, nel giorno seguente; poichè più pensava, ed esaminava la sua coscienza e meno si trovava meritevole di rimprovero, non che di tali cattivi tratti appena, appena da potersi usare con un malfattore. Ma s’ingannava affatto nel suo supposto perocchè il Commissario data una scampanellata chiama due birri e loro ordina d’andare per una vettura; allora ei cadde in pensiero d’essere stato scambiato per un altro, e dimanda con supplichevole voce a quell’inumano la causa di siffatta riprensione; oh bella! guardate l’innocentino! risposegli tosto il Commissario, non sa d’aver fatto cosa biasimevole! quindi cangiando tuono di voce continuò: _andate con questi uomini, ed imparate a condurvi meglio per l’avvenire_. Il sig. T. P. si rivolse e vede i due birri, che erano stati mandati a prendere una vettura, fermi sul limitare della porta, due lacrime gli annebbiano gli occhi, un sudore di ghiaccio le investe per tutte le membra, un moto convulso che tutta gli agitava l’anima si palesa in compassionevole modo sulla sua sembianza; pregava col gesto, colle parole, e coll’espressione della persona il Tosi a dargli una qualche spiegazione, a dirgli in che si credeva egli avesse mancato; ma nulla gli vien risposto che più gravi ed amari accenti, poscia con un urtone spinto fra le braccia dei due arcieri, i quali l’accompagnano fino fuori dell’ufficio, lo fanno salire in carrozza e si mettono ancor essi l’uno per parte, e fanno segno al vetturino di inviarsi al _Correzionello_, luogo di prigione, dove sono rinchiusi ordinariamente i più gravi malfattori finchè non si è pronunciata ancora sul loro venire la sentenza dai pubblici tribunali. Quivi giunto quasi fuori di se, messo in un ampio camerone con la feccia del canagliume il più pestifero della società, stette molto, prima di riaversi, ed appena presero una tal calma li suoi sensi, e si riconobbe tra quella gentaglia, ripensava alla scena avuta col commissario Tosi e gli pareva di trasognare, che nulla dell’accaduto fosse vero; se non che un sergente di infanteria, (il quale trovavasi tra quella marmaglia, ed aspettava d’uno in un altro giorno, per decisione de’ suoi giudici d’essere tradotto o alla _catena militare_, o al _corpo franco_ nell’isola di Sardegna, quantunque nulla fosse risultato in suo danno dall’esame, e dalla perquisizione domiciliare che gli avevano fatto per averlo creduto divulgatore di libri proibiti) gli si accostò per vedere di sollevarlo, e con amorevolezza rarissima a rinvenirsi in que’ luoghi prendendo a ragionare con lui, gli suggerì, appena udito il racconto dell’accadutogli, di scrivere a qualche persona di sua conoscenza perchè si interponessero, e gli facessero rendere giustizia, ed alla peggio dimandasse che lo sottomettessero al giudizio d’un tribunale. Egli abbracciò questo partito, come un marinajo afferra l’ancora qual unica via gli rimanga a salvezza; scrive una lettera ad un conoscente suo, il quale credeva più d’ogni altro potesse giovargli in tale bisogno; dà una fortissima mancia al custode, perchè la sia ricapitata senza fallo ed indugio al suo indirizzo; aspetta la risposta un giorno, non la riceve; ne scrive un’altra, la consegna ad un birro e gli promette una considerevole mancia se gli fa tenere pure la risposta, questo chiama, ed ha la mancia anticipata, e non consegna la lettera a chi dovea, siccome aveva fatto il giorno avanti il custode; scrive altre lettere ad altri, opinando che quelli a cui già s’era raccomandato o non potessero, o non volessero interessarsi per lui, ma si trova sempre alle stesse, i birri si beccavano i danari di sua cortesia, e giammai mandavano ad effetto le loro promesse; sicchè disperato non sapea a qual consiglio appigliarsi, ma poi rassegnatosi al destino aspettava una provvidenza nella procedura delli stessi suoi nemici. Intanto sentendo il bisogno di mutarsi i panni e gli abiti, e di farsi recare di casa del danaro, novellamente fassi a pregare il custode del carcere, perchè volesse egli mettersi di mezzo in tal cosa, ed appagare il più che giusto e più che discreto suo desiderio, ne ha mille promesse, ma nulla ottiene di felice risposta. Passano i tre, i quattro, i cinque, i sei, i sette, li otto, li nove, li dieci giorni, e la cosa pel nostro signore carcerato nè meglio nè peggio si sviluppa; se non che sul dodicesimo giorno riceve un baule entro cui non solo non poteva esservi nè tutto nè mezzo il suo equipaggio, ma nemmeno la decima parte, e colla consegna di questo ha l’avviso che fra pochi minuti sarebbe partito per alla volta di Genova in compagnia di due carabinieri. Di fatto di lì a poco una carrozza si fermava innanzi alla porta della prigione, e montatovi esso in compagnia di due carabinieri vestiti in tutta pompa della lor reale uniforme, si avviava giù per di Doragrossa. Si fosse la voce sparsa del suo arresto dalla padrona di casa da cui egli appigionava un quartiere ammobigliato, si fosse che alcuni di sua conoscenza lo avessero ravvisato nel vederlo attraversare di pien giorno la città nella nominata compagnia, non saprei ben dire, ma fatto è che mentre egli camminava sulla via della Liguria, alla sera al teatro Regio sotto ad un palco della prima fila affollata era la gioventù torinese, e chi col guardo, e chi colla parola, e chi cogli atti vedevasi minacciare ad una signora grassoccia, paffutella, e brunotta di carnagione. Essa cogli occhi fissi sul palco scenico faceva le finte di non addarsi del movimento sottostante; per il che istizziti ed agitatisi maggiormente quegli animi giovanili, che in ogni atto pareva intendessero a far arrossire quella donna di qualche sua colpa, fecero di tanto che tutti gli occhi si rivolsero ad un tratto verso il palco di lei: e queste parole correvano per le labbra di tutti: _vedi in quei palco la signora Garbiglietti-Pavarini, la è la causa dell’arresto di T. P. fuori del palco quella puttana, fuori, fuori la signora Garbiglietti-Pavarini, fuori quella puttana_; sicchè tra pel vedersi fatto segno al guardo, ed allo sdegno di tutto il teatro, tra pel sentire coteste voci, le quali venivano sempre pronunciate ogni qual volta sentivansi applauditi i cantanti, tra perchè tutta la gente stava rivolta continuamente a lei, le fu giuocoforza di uscirsene dal teatro tra le risa e li fischi dell’universale. Era costei moglie del medico Garbiglietti, e da un mese o poco più era in relazione col commissario Tosi, il quale accortosi che il sig. T. P. faceva egli all’amore colla sua Bella, dopo d’essere riuscito ad indurre lei a non più riceverlo presso di se, essendo pervenuto a notizia che ella lo andava a trovare in casa sua, prese un giorno il marito a parte, ed informatolo della cosa l’aveva esortato a fare un ricorso alla polizia contro del giovane signore, assicurandolo che egli avrebbe dato la massima attività all’affare, ed avrebbe troncato immancabilmente ogni relazione, ed ogni scandalo ad un tempo evitato. Il medico gran buon’omaccio non penetrò a fondo nell’indole del commissario, e per conseguenza non accorgendosi che il consiglio di lui era più che una generosità d’amico, una vendetta sua particolare, tenne il partito offertogli, fece il ricorso, e tra lui, ed il Commissario indussero la moglie a soscriverlo, la quale pel pensiero di mutare stallone aderì non solo, ma di più seguiti i loro consigli, accusò il giovane come uno che la perseguitasse dappertutto, e l’avesse minacciata qualora non avesse condisceso al suo amore, d’infamarla presso il pubblico. Che è mai amor di donna? due giorni prima fu vista inginocchiata da me sul viale del Valentino innanzi al giovane, e raccomandarglisi perchè non l’abbandonasse!!! Lo stesso giorno dell’arresto per coprire la trama essa era stata pure a trovarlo in camera per più d’un’ora...! così il Tosi potè completamente disfogare la sua bile, il suo odio, la sua gelosia in quel modo che dicemmo contro l’impiegato di S. M. il quale dopo d’essere stato cacciato barbaramente in prigione, malmenato, come abbiamo veduto sopra, e cacciato dallo stato qual uomo di pessima condotta, venne tradotto a Genova dove smontato alle carceri, quivi fermossi dieci giorni senza che sapesse nulla ancora sulla determinazione presa in suo riguardo. Quand’ecco venuto l’aurora dell’undecimo dì coll’annunzio che sarebbe stato portato su di un vapore Sardo fino a Civitavecchia, e dopo accompagnato fino a Roma sua patria, fu lasciato libero, gli fu eziandio svelata la sua colpa che fin’allora eragli stato un vero arcano. Non è a dire quanto egli siane rimasto maravigliato, ma non vedendo più omai appiglio convenevole da attaccarsi, lasciò che la sentenza del Tosi fosse affatto messa in esecuzione. Giunto a Roma gli parve d’essere rinato vedendosi in libertà, e passati alcuni giorni non vedendo le sue convenienze di quivi fermare la sua dimora decise di partire; e va pel passaporto; per cui dopo averlo fatto correre più volte adducendo or una, or un’altra scusa, finalmente un segretario dell’ufficio del buon governo si fece ad interpellarlo sulle ragioni che aveva lasciato Torino, e ben bene ponderate le risposte gli disse: se gli abbiamo fatto aspettare il suo passaporto non è per altro che per informarci esattamente della sua condotta prima che andasse in Piemonte, di quella che quivi tenne in tutto il tempo della sua dimora, e dell’attuale, presentemente non abbiamo difficoltà di rilasciarglielo, però la consiglieremmo a mutarlo in un nuovo, giacchè qualche segno che gli fecero sopra potrebbero incagliarlo non poco nel viaggio che intende intraprendere. L’infame commissario dopo averlo privato d’impiego, dell’amante, e sul momento, dell’onore eziandio, s’era ingegnato di attraversargli di più l’avvenire, di ruinarlo del tutto, di togliergli perfino il mezzo di sussistenza; ed ottenuto avrebbe il perfido il suo intento se gli amici non avessero fatto tenere all’infelice importanti somme in sussidio, e l’officiale della Polizia Romana non fosse stato assai più che non esso di coscienza nel prendere misure di rigore verso del meschino... Ma dopo questo accaddero già molti altri fatti, ed uno appunto per la sua singolarità non vuolsi assolutamente passare sotto silenzio: tutti sanno che il _bigottismo_ regna in Piemonte, che ad un impiegato convien’essere o fingersi _bacchettone_ se vuole conservarsi in grazia de’ superiori; ma niuno sarebbesi mai immaginato che per leggere e ritenere _le Juif Errant par Eugène Sue_ si sarebbe corso il rischio di perdere l’impiego: eppure ciò incontrò or fa pochi giorni al sig. N. N. uomo assai benemerito pe’ suoi servigi prestati da molti anni al Governo, il qual avendo lasciato un giorno sul suo cancello d’ufficio un volume del detto romanzo inavvertentemente, diede ragioni al ministro abbastanza sode con ciò d’essere creduto malvagio, indegno dell’impiego, e che so io. Perocchè il volume citato venne raccolto, e si dice bruciato poco dopo in presenza del Conte Solaro della Margherita, e sostituitevi invece le dimissioni sue, entro cui niun’altro rimprovero veniva fatto all’impiegato da quello in fuori d’avere osato tenere presso di se _sì diabolico libro_, e fare sì _scandalose_ letture. Non vorrei che voi Azeglio od alcuno in leggere questi fatti s’inducesse a credere avere io raggranellato quanto di più biasimevole possa essere accaduto nel nostro stato, od aver detto cose dubbie e false, perocchè protesto novellamente che mille e mille potrei citare di simili casi di prepotenza, e che sonomi attenuto solo a questi, sia perchè più conosciuti e perciò più difficili ad essere impignati, sia perchè non volea parere troppo più lungo che non comportasse l’argomento. Ma non vorrei soprattutto che voi, od altri pensasse esigere io in uno stato tutto ordine, tutto bene, tutto perfezione. Quando fu mai che le umane cose e le divine pure com’elle passarono per le mani degli uomini, immacolate e perfette si mantenessero? Certo saria da mentecatti il volere negli altri quella colma misura di buono, che noi stessi non possediamo, ma non perciò dobbiamo astenerci dall’alzare alta la voce, e rimproverare con acre parole chi o direttamente o indirettamente può essere autore, promotore, o causa anche secondaria di simili abusi che sono il vero cancro dei buoni costumi, la vera peste dei governi e dei popoli, la vera ruina della società. Io potrei anche trattenervi sulle prepotenze che si veggono fatte agli impiegati borghesi facendo loro prendere il passo dai nobili, che per lo più sono ignoranti, perchè non istudiano, le quali sono sì spesse che può dirsi senza fallo, noi non ne facciamo più parola per esservi assuefatti, e se pur qualche volta mostriamo di risentirci, ce la prendiamo contro il destino, il quale ha fatto trovare dietro noi qualcuno di nobile schiatta. Potrei ragionarvi sugli scandali che si veggono nei nostri ministerii rispetto all’ammessione degli impieghi, non facendosi scrupolo certi Capi di divisione di vendere la firma del Ministro o del Re anticipatamente e a carissimo prezzo, e molte volte la stessa a più persone nel medesimo tempo; per lo che molti spesse fiate dopo avere sborsato considerevoli somme per essere raccomandato ed ottenere la nomina di _volontario_ in qualche ufficio, o anche di aspirante al _volontariato_, si trovano in bisogno, frustrati nelle loro speranze, e senza potere trarre partito dai loro studi e dai loro talenti. Potrei entrarvi delle ingiustizie d’ogni maniera che si commettono in qualsiasi branca delle pubbliche amministrazioni, delle regie cariche, e nelle milizie principalmente, dove per esempio il nobile ha sempre il dissù sul borghese, il quale giunto al grado di capitano vien mai sempre messo in ritiro, perchè i posti di ufficiali superiori sono riserbati alla pura nobiltà; meno nelle così dette _armi dotte, l’Artiglieria, e il Genio_, in cui il merito e la scienza possono dappiù, e per conseguenza il borghese può fare regolarmente il corso de’ suoi avanzamenti. E molte cose pure potrei toccare dell’_Opere Pie_, nelle cui amministrazioni spesso accadono degli inconvenienti gravissimi, dei ladroneggi fortissimi, e degli errori madornali; e per esempio estendermi sui limosinieri della _sfondolata Opera_ di S. Paolo, di cui alcuni, che io conosco, invece di portare alle indigenti famiglie quelle somme, che quel filantropo stabilimento loro assegna, a mensuale soccorso, ora le arrischiano e perdono al giuoco; ora con quelle proveggono a donne rotte alla libidine, i scialli, i vestiti, ed i divertimenti, non che il vitto; quindi inducono quelli cui spettava un tal danaro a far loro la ricevuta della intiera somma, di cui essi non avranno consegnato che una decima parte nelle loro mani. Potrei anche tener discorso della persecuzione portata ad un eccesso troppo vergognoso pei tempi che corrono, contro a parecchie migliaja d’Ebrei, i quali dopo di pagar un’annuo ed alto tributo al governo, oltre al non poter esercitare verun’arte e studiare scienza di sorta, sono costretti a viversene tutti in un isolato, la cui proprietà fu loro fatta pagare ad uno spropositato prezzo, ed in cui le regole igieniche appena comporterebbero ve ne abitassero un sesto del loro numero. Finalmente della persecuzione più ingiusta contro i Protestanti, i quali, dopo d’aver loro promessa e concessa tolleranza, dopo d’aver con sovrani rescritti annientati molti barbari editti contro loro emanati, Carlo Alberto ultimamente obbligò con suo motuproprio a rivendere tutte quelle terre, tutti quei poderi che avessero compri anche dietro autorizzazione del Senato e di se stesso oltre il termine stato loro anticamente assegnato, in un anno sotto pena di confiscazione? Nelle quali cose è consigliere, e stimolo potente di Carlo Alberto il Savojardo, Monsignore Andrea Charvaz, uomo che è Vescovo, Comandante, Intendente, Riformatore degli studi, Sindaco, e Commissario perfino di Polizia in Pinerolo, di dove quasi ogni settimana recasi a Torino per conferire col Re, co’ suoi ministri, e principalmente con _Avet_, il quale tiene il portafoglio per gli affari di grazia e giustizia. Questo corpulento prelato qualora venisse a mancare il Re, ed il primogenito suo, l’augusto Duca di Savoja salisse il trono, sarebbe quegli che minaccerebbe di prendere le redini di tutto lo stato; tanta è la sua influenza sul Duchino di cui è stato precettore! tanta è la confidenza che questi gli usa, recandosi spesso a visitarlo nella sua villa e consigliandosi già adesso con lui in tutto. Non che amor evangelico, porta un’odio implacabile l’illustre Vescovo alle varie sette dei Protestanti, che abitano le valli di S. Giovanni, di S. Martino, di Pragelato, di Rorà, di Luserna, di Latorre, ec. ec.: sicchè dopo di averli guerreggiati inutilmente cogli scritti prese il consiglio di combatterli colle prepotenze, e colle vessazioni d’ogni maniera, lasciando di queste un’assoluto maneggio al suo Vicario generale Giacinto Brignone uomo altrettanto giovane per età, quanto adulto per iscaltrezza, e non animato da altra cosa, che dall’ambizione di dominare, e dal desiderio di elevarsi sulle ruine altrui. Uomo insomma infame, retrogrado, e per conseguenza nemico d’ogni progresso, che invece di far plauso a tutti que’ sacerdoti che dimostrano d’aver inteso i suoi tempi, e di volersi levare a paro delle umane cognizioni, e mettere anch’essi una mano all’opera della vera civiltà, li insegue accanitamente e senza riguardo ad età ed a meriti. E siccome Monsignor Charvaz tutto approva anzi commenda quel che egli fa, così egli prese tanto piede che riuscì ad essere un vero despota, un vero tirannello del clero e degli abitanti di quella diocesi, e tra lui ed il Vescovo costituiscono un governo non solo della Diocesi ma della provincia affatto tirannico. Tutti passano per le loro mani gli affari prima che possano avere il loro sviluppo, il quale unicamente dalla loro volontà dipende. Molti casi mi sarebbe dato di raccontare, se non avessi paura di essermi dilungato già troppo dal mio assunto, ad ogni costo non ne voglio passare uno inosservato, il quale attesta in pari tempo e l’usurpato loro potere, e la malvagia loro astuzia per crescere in merito presso chi si contenta di giudicare delle cose dal loro esteriore. Un protestante un giorno dopo aver tracannato più vino che non era solito, viene a rissa con uno che pareva si volesse canzonarsi di lui, e dopo d’essersi vicendevolmente scambiate alcune brusche parole, vedendo questi di non la poter dire e di non valere a liberarsi di quell’altro che aspramente il motteggiava, inconsideratamente toglie un coltello di tasca il minaccia, quindi trovandosi sempre alle stesse il passa fuor fuori con un colpo, ed il lascia freddo a nuotare nel suo sangue. Viene il protestante arrestato, sottomesso ad un processo criminale, ed in pochi giorni condannato nel capo, non perchè meritasse tal sentenza, gli omicidii fatti in rissa e da ubbriachi essendo ben altro secondo il codice sardo, che suggelli a tal pena; ma bensì perchè il prelodato Vicario Giuseppe Brignone coll’appoggio del Vescovo il quale mai gli si rifiuta, aveva fatto sì che si usasse il massimo rigore verso il reo, che appieno nell’interrogatorio era convenuto. Ed ecco i motivi di tal procedere; prima perchè egli era protestante e perciò le leggi non sono più come per gli altri; secondariamente perchè sapendo egli che questi aveva una numerosa famiglia, era caduto in pensiero di intimorirlo con tal sentenza, per poi trarlo in un co’ suoi consanguinei alla nostra cattolica religione: di fatto poco dopo d’avergli comunicata la fatal sentenza, inaspettata per lui, e per tutti, gli fu fatto dire che se egli convertiva se, ed i suoi alla Santa Madre Chiesa, Monsignore il Vescovo gli avrebbe ottenuto la grazia dal re. Figuratevi qual tentazione non abbia fatto sul suo animo una tal proposizione! manda a chiamare la sua famiglia che a dieci individui ascendeva, e li informò della cosa; ma qual maraviglia non fu la sua trovandone li più di lui istrutti? tanta era stata l’operosità del Brignone! Caddero adunque d’accordo di mentire tutti alle loro convenzioni, al loro animo, promisero, e si fecero cattolici, apostolici e romani, e non solo il reo ebbe la grazia compiuta, ma lasciatolo ritornare a casa sua libero, fu incaricato da Monsig. il Vescovo di spionaggio con assegnamento d’annuo stipendio; giacchè sendo persona litterata più che comunemente non sogliono essere gente di mestiere, avrebbero voluto i nostri prelati valersi dell’opera sua per trarre nella rete altri merlotti. Ma egli fermo di carattere per prudenza condiscese in sulle prime, ma nulla mai fece che potesse tampoco macchiarlo di poi in faccia a’ suoi confratelli e compatriotti; però mi viene assicurato che tanto egli quanto li suoi non sono più nè cattolici nè protestanti; e come poteva accadere altrimenti? Atene guadagnò la Grecia coll’armi dell’Eloquenza, Sparta guadagnò Atene coll’eloquenza dell’armi, Monsignor Charvaz ed il Teologo Brignone suo vicario vorrebbero guadagnare i Valdesi col raggiro e colla persecuzione, anzi che colla forza del raziocinio e coll’armi della dottrina, e coll’esempio, testimone della verità e della parola; onde sono infelici nelle loro vittorie; chè i risultati della loro astuzia fin’ora neppur una volta ebbero buone conseguenze, da quella infuori di far circolare tra le indigenti classi di quelli infelici l’argento e l’oro che Carlo Alberto consegna a copia, forse in mitigazione dei suoi rimorsi, a tal fine nelle mani del Vescovo di Pinerolo, il quale, è vero, non si fa mica poi sempre scrupolo di impiegarlo altrimenti. Che dirò poi io della pubblica e privata istruzione in Piemonte, la quale per tanto tempo fu diretta da un Gesuita per Eccellenza, il Conte Collegno, stato poi minato e surrogato, da quella buona lana, omai conosciuta da tutti, di Monsignore Pasio, più gesuita di qualsiasi gesuita, il quale non valse in cinque anni che tenne le redini del _supremo magistrato della riforma_ a fare miglioramento di sorta, e buon per noi ancora se avesse lasciate le cose come erano! ma fatto è che le peggiorò; ne sia una prova, per mille, quella d’aver scelto a maestro modello, ossia maestro de’ maestri un cotale D. Remigio Pelleri, il più ignorante uomo che mai sia esistito, il quale in un libro stampato per saggio di sua abilità, il _fanciullo guidato a suoi doveri morali e religiosi_ disse più spropositi che parole, e fu condegnamente smascherato in due articoli del Telegrafo Torinese dal Prof. Lorenzo Giribaldi. Successe al Pasio un discendente del gran tragico italiano, il march. Alfieri di Sostegno, il quale nel sobbarcare le sue spalle ad una tal carica rallegrato aveva tutto il Piemonte. Ma due anni sono che siede nel mezzo del magistrato della Riforma, e nulla fin’ora di importante ha operato; l’educazione anche in gran parte è sotto l’influenza Gesuitica, od in pieno lor potere; i Fratelli della dottrina cristiana, veri dragoni dei Gesuiti, inondano la capitale, le città di provincia, e tutti i paesi del Piemonte, dirigono l’educazione del basso popolo, e ne conservano ed accrescono i pregiudizi, ne ammorzano la generosità, e ne imbastardiscono l’indole. L’Alfieri aveva senza dubbio delle sante intenzioni, ma non fu abbastanza cauto, lasciossi attorniare da persone che la pensano all’opposto di lui, le introdusse di più nel conciglio da cui doveva invece guardare di tenerle lontane per sempre e perciò giammai sarà che egli possa arrivare l’intento, colla cui speranza era entrato in tanto ministero. Per tacere gli altri nomino solo l’abate Peyron, il quale, vera anguilla, non è per lui conosciuto; ma già a quest’ora lo conduce pel naso, e lo gira e lo rigira a suo modo, valendosi non poco dell’opera del Cav. De Bayer, il panegerista di tutti gli opuscoli ascetici, morali, e mistici che possano uscire dalle penne della Veneranda Compagnia di Gesù. Una pruova inconcussa che l’Alfieri non potrà più migliorare la condizione degli studi, e della educazione dei subalpini ingegni, si è che invece di fare un passo avanti lo fece indietro; invece di rendere più libera, e facile l’istruzione, l’inceppò ed in angustissimi limiti la ristrinse, quando or è pochi mesi faceva che Carlo Alberto con suo motuproprio obbligasse i padri e le madri di famiglia a valersi dell’opera di certi determinati Professori, i quali perlopiù sono cattivi, perchè non degnamente corrisposti; di certi determinati libri, che fin’ora non s’hanno buoni, e quali sono necessari per l’educazione della figliolanza: cosa che sarà causa di molte male conseguenze, come di molte male conseguenze fu pure sempre l’avvilire i Professori con un basso stipendio, anzichè di rimeritarli ampiamente, perchè con amore ed impegno attendano al loro sacro ministero. In Piemonte un cuoco, un cocchiere ha assai più in compenso delle sue fatiche che non un Professore di Filosofia, di belle lettere, alla qual cosa subito doveva por rimedio l’Alfieri se pur intendeva d’avere buoni Professori; ma egli si consiglia con chi anzi ei dovria consigliare per trarre dalla sua, e mai nulla opererà di buono anche colla più grande volontà. Non parlo poi dell’educazione del sesso debole, da cui tanto dipende eziandio la prosperità del corpo sociale, giacchè è noto a tutti che in Piemonte gli _instituti_, le case d’educazione, e le scuole per le bimbe di qualsiasi condizione, sono tutte sotto la speciale direzione o delle suore del sacro Cuore di Gesù, o di qualche loro figliazione, sparse per tutti i paesi: di modo chè da noi l’influenza Gesuitica pesa su tutti i ceti della società più o meno; dalle quali cose non è chi non vegga, quante migliorazioni prima resterebbero a fare per il nostro governo, perchè noi potessimo un giorno sperare in lui, e crederlo potente stromento a rivendicare la causa Italiana. Si converrebbe o Massimo che voi ci provaste in qualche patente modo, che il nostro governo se non mostrasi intento all’opra, almeno non si oppone alle generose tendenze del secolo; che in questo moversi universale d’idee e di progetti, in questa mischia di opinioni, in questa irresistibile smania di nuove prove, di più energici tentativi, e di novelle cose si addimostrasse più propenso a tollerare, che non a spegnere quella sacra fiamma, da cui universale un incendio deve scoppiare ad incenerire i troni, li scettri dei nostri Tiranni, per far risorgere, qual fenice, più bella la libertà, la gloria nazionale. Sì, farebbe di mestieri voi attestaste con validi argomenti, che Carlo Alberto ami l’istruzione, ed il ben’essere del popolo; sia persuaso che la tranquillità degli Stati e la sicurezza dei Governi stia nell’amore e nel vendicare i diritti di quello, che approvi ora l’associazione degli individui, delle masse, e de’ popoli, e non faccia guerra al mutamento delle opinioni e delle cose, per ordinarne con sapienza l’andamento, e non tenti di farle retrocedere a vecchie ed ormai impossibili costumanze, che desideri insomma gli si scriva una storia d’illustri gesta, non una cronaca di debolezze, di prepotenti azioni, di viltà, e d’infamie. Non dubito punto, che voi a provare la protezione di Carlo Alberto alle scienze, alle lettere, addurrete principalmente quei segni di onorificenza, che egli va attaccando all’occhiello supremo degli abiti de’ suoi fedelissimi sudditi, per non dire, gettando negli occhi nostri per abbarbagliarci, per metterci le traveggole. Ma tutte le persone premiate di croci, sono esse tutte persone di merito? tutti li uomini che sarebbero degni a preferenza degli altri di simile onorifica testimonianza, sono dessi rimunerati, e fatti cavalieri dell’ordine di S. Maurizio, o di quello di Savoja? a mala pena ne trovereste qualcuno tra l’innumera schiera di coloro che pur le hanno, le portano, e ne menano vanto pubblicamente siccome di sudato trionfo; e questi tali raramente è ancora che voi li vediate a fregiarsene il petto, amando meglio lasciarle in casa in qualche tiratojo, che facendone mostra essere confuso con coloro, i quali se le guadagnarono con viltà, strisciature, adulazioni, inchini, scaltrezze, con fare il bacchettone sulle porte delle chiese a raccorre la limosina pei poverelli, con falsare qualche pagina dell’istoria della casa Sabauda, siccome fece spesse fiate il Cibrario, degno emulo di Adriano Balbi che non ha vergogna di adulterare la scienza per acquistar coccarde, cosicchè indarno uno si farebbe a cercare nella sua Geografia l’Italia, avendola egli squartata nel nome come già pur troppo lo era nel cuore; e finalmente con un qualche bugiardo panegirico diretto al glorioso regnante sulla foggia modellato di quelli del Paravia, Uomo, il quale mentre dovrebbe studiarsi in assiduo di gettare negli animi della subalpina gioventù il germe d’ogni più grande, più maschio e generoso affetto, di educare le giovani menti affidategli ad alti concepimenti, ad arditi e sublimi pensieri, pare si martelli il capo per intristire ed evirare l’indole dei più svegliati ingegni, per annientare in loro la facoltà d’innalzarsi sugl’altri, per sfiduciare e sfibrare i più magnanimi cuori. Del resto giova eziandio avvertire, che lo spargere molte croci è affatto secondo il sistema economico di Carlo Alberto, giacchè con esse si risparmia a giubilazioni, a gratificazioni, a risarcimenti in danaro, perchè i vecchi impiegati, i vecchi militari, gente per lo più ignorante, epperò facile all’invanirsi, preferiscono aver qualche soldo di meno in tasca, ed essere insigniti di tali decorazioni. Le quali per ottenere soventi volte basta a chi ne è bramoso il mettersi in relazione col padre Bresciani della compagnia di Gesù, ed il seguirne a puntino i consigli per qualche tempo. Ma un argomento chiaro e convincente per chiunque a dimostrare, che tra noi il vero merito difficilmente è rimeritato, hassi nel riflettere, che per conseguire siffatte ricompense, è mestieri che la persona istessa che se ne crede degna, le dimandi per via d’una supplica in cui siano in chiaro modo esposte tutte quelle ragioni, che possono meglio farla agli occhi del Sovrano benemerita. Formalità questa, alla quale non so chi avendo una dramma di buon senso, non arrossisca di abbassarsi: seppure è vero l’antico adagio, che merito e modestia non si abbandonano mai. Abbiamo troppe croci già ciascuno a portare segnatamente! Troppo pesante è quel crocione che pesa su tutti gli Italiani, e prostra al suolo le loro fronti! perchè da noi si possa anche far plauso ad un Carlo Alberto, che ogni giorno ce ne porge di nuove innanzi, rimunerando con esse degli individui, i quali davvero meriterebbero più d’essere appesi essi alle croci, che non affiggessero le croci a loro. Onde se la cosa cammina anco un pò di questo piede, noi vedremo queste onorifiche insegne, anzichè essere ambite, e tenute in pregio, venire derise e sprezzate universalmente. Se non che l’ambizione nell’uomo è tale e tanta, che spesso ci induce a lodare in noi quello che condannavamo in altri; al qual proposito deggio confessare, con disdegno, ed onta pel nostro onore, d’avere conosciuti uomini, che pur avevano diritto alla pubblica riconoscenza, ed ammirazione mutare di carattere, e di pensamenti al giungere loro la volgare croce di S. Maurizio in meno di tempo che un soffio di vento rivolta una foglia. Ma non perciò ci dobbiamo astenere da gridare ad alta voce, che vuolsi riputare piuttosto mezzo a corrompere il popolo che non a migliorarlo, la dispensa dei nastri, in cui si segnala tanto generoso, anzi prodigo il nostro re. Il vero compenso delle opere buone deve considerarsi nella soddisfazione dell’animo, nella scienza di aver compiuto ad un santo dovere, nella certezza che tardi o tosto le nostre azioni la società, e la patria approverà in quello, che le additerà ad esempio: Ecco ciò che dobbiamo inculcare nelle menti dei nostri fratelli, ecco quello che dobbiamo giammai restarci da predicare. Allora quella brama di notizie peregrine, quella smania di prevedere, quel desiderio intenso che c’induce a chiamare ogni giorno a chi prima incontriamo, se nulla occorra di nuovo, di singolare, fia si muti ben tosto in facoltà d’intraprendere, di resistere agli urti, di perseverare finchè non si rimanga vittoriosi. Anche la determinazione di abolire il giuoco del Lotto, potreste in sua difesa mettere in campo, se io non vi osservassi a tal riguardo, che ella comincia ad esser vecchia, e sapere di stanzio, giacchè sono più anni che la manifestò e mai non la pose ad effetto, rincrescendogli di rinunciare ad un tanto utile, tantochè vergognosamente ed infamemente procurato. Ed in ciò anzi lo veggo maggiormente rimproverevole, perchè sarebbe da compatire se non ne conoscesse il danno; ma essere di ciò persuaso, e mostrarsi tuttavia in dubbio se a torre o a conservare quello anche si abbia, è cosa propria o da imbecille, o da malvagio. Chè qualsiasi governo, al quale stia a cuore il ben essere del popolo, conosciuto appena un male tosto vi appresta l’opportuno rimedio, tanto più quando dal sagrificio di picciolo bene puossene ricavare uno grandissimo. Come del rimanente lo volete scolpare? come farlo vedere sovrano moderato, splendido, magnanimo, generoso, e grande? siccome l’avete fin’ora predicato. Come difendere quelle leggi sue, le quali non mirando agli universali, ingenerano dubbi, coi dubbi le liti, colle liti la divisione degli animi, con questa l’impero, da cui procede il dispotismo? come lo mostrerete tendente a liberalismo? A nulla servono le vostre parole diversamente, a nulla il mostrare quella medaglia, ideata dal Balbo, che racchiudendo tutti gli stemmi di casa Savoja si presta ad una forte e bella allegoria a prima vista; ma poi osservata attentamente non addita più altro che una delle tanto piccoline ambizioni che tengono in vita il nostro Carlo Alberto. Giacchè la posa del Leone raffigurato in essa, è tranquilla e tutt’altro che minacciante di scagliarsi sull’aquila, la quale pure non vuolsi confonder col biteste animale grifagno dell’Austria, essendo l’Aquila dell’Alpi, decorazione del nostro stemma reale. Le quattro somme glorie italiane non sono quivi ritratte che per significare essere Carlo Alberto l’unico principe attualmente regnante che sia di sangue italiano; epperciò più degno appunto di riprensione perchè meno compatibile degli altri nella sua maniera tirannica di governarsi. Il motto francese poi che puossi così tradurre alla lettera: _sto aspettando l’astro mio_, appartiene eziandio all’antico stemma della famiglia; del resto gli si potrebbe rispondere che più volte gli comparve quest’astro sull’orizzonte per guidarlo a virtù, ma egli colla esosa sua condotta insultò a quella luce, fece inorridire col fetore delle sue peccata quella stella, che ritiratasi dal cielo ricomparirà velata da una tinta di sangue, quando noi avremo redenta la patria e vendicato il suo ripetuto tradimento, e ci guiderà al suo sepolcro perchè maladicendo al suo nome, non obbliamo di disperderne le ceneri, di ruinarne la pietra, onde nulla resti ai posteri di lui memoria, perchè immeritevole della stessa celebrità dell’infamia. Ricordatevi quel detto che a proposito di Carlo Alberto è fama a quando a quando pronunciasse la sua madre: _il mio figlio non ha nè testa nè cuore_. Che non abbia cuore tutti si convengono, ma che non abbia mente, è ciò che molti vorrebbero diniegare. Come mai se avesse un pò di cervello potrebbe permettere tanti abusi ne’ suoi stati ora con consenso, ora con fingerne ignoranza? come mai sarebbe caduto in tante imbecillaggini che lo fanno deridere anzichè odiare? e come non avria posto mente a tante voci che da ogni parte della Penisola il chiamavano alla gloria? Come non saria stato animoso a cingersi di quella corona immortale che il Genio d’Italia tante volte le offerì? Come si sarebbe mostrato sì timido, sì debole, sì vigliacco, e sì pauroso in ogni cosa? Valga il seguente fatto a provare in mirabil modo la fermezza eroica del suo animo! Il Colonnello J.... nobile piemontese, dopo aver reso molti servigi al Piemonte recavasi a servire la Spagna, dove onori pel suo valore d’ogni maniera gli venivano conferti; venuto in avanzata età, ed amando di rivedere il suo paese natio, si porta a Torino; dove pervenuto agli orecchi del Re Carlo Alberto il suo arrivo, il mandò a chiamare ed accoltolo amorevolmente, in attestato di estimazione de’ suoi meriti gli dà la croce di Cav. di S. Maurizio e Lazzaro, lo conferma nel grado di Generale a cui era stato in Ispagna innalzato, dicendogli che sperava si saria fermato in patria ed avrebbe il suo ferro consacrato alla medesima. A tali dimostrazioni il Colonnello J.... l’assicura che alla manifestazione di simile desiderio si conosceva assai onorato, e non poteva a meno perciò di aderirvi. Il Re lieto della risposta il fa soffermare in quel giorno in corte pel pranzo attestandogli continuamente di averlo in grazia ed in pregio altissimo. Ebbene dopo due giorni fu mandato a richiamare il Cav. J.... amorevolmente gli fassi incontro Carlo Alberto appena lo vede a comparire ne’ suoi appartamenti, _e mio caro_, gli dice, io deggio disdirmi dell’invito che l’altro jeri vi ho fatto, il ministro mio Villamarina con cui ho parlato lungamente di Voi, mi fece vedere che la vostra dimora _permanente in Piemonte poteva dar luogo a rumori, essere pericolosa, mentre io la credeva utile, onde m’obblighereste se fra tre giorni procuraste d’allontanarvi; che mai volete? son cose a cui dobbiamo rassegnarci. Però potete conservare in mia memoria e ’l grado e l’onorificenza che vi conferii_. A tai detti sorpreso l’antico militare dignitosamente rispose queste due parole: _grazie alla vostra maestà, quale son venuto, tale me ne andrò, e fra un’ora sarò fuori di già dalle mura della capitale_. La cosa si sparse per tutta la città, tutti ne ridevano, meno il ministro che godeva d’aver allontanato un suo nemico. Carlo Alberto si credeva d’aver dato saggio di una gran forza d’animo, d’una gran virtù, d’aver vinto il nemico più difficile ad essere soggiogato, secondo gli dicea il confessore suo, cioè d’aver vinto se stesso! E voi Azeglio volete farci credere in un tal uomo? in un uomo che se fosse vera l’opinione che le anime dei malvagi dopo aver vagato nello spazio vadano ad informare i corpi d’altre più basse persone, non potrebbe aver ereditato altra anima che quella di Giuda? in un uomo che dopo aver logorato la sua vita nei vizi, ora stanca da mane a sera gli inginocchiatoi, e gli altari? in un uomo che anche togliendogli la tristezza dell’animo, non sarà mai capace d’intraprendere la più piccola opera, nonchè quella della nostra rigenerazione? in un uomo, il quale non solo brama soffocato e spento lo spirito di indipendenza e nazionalità, ma di più tenta in ogni modo di far nascere ne’ suoi sudditi lo spirito contrario? in un uomo, il quale proibisce una società, che aveva per iscopo di diffondere lo studio della lingua italiana nel Piemonte, e togliere di mezzo a poco a poco il deforme dialetto che si va cinguettando da noi? la qual cosa ci dovrebbe assai bene convincere delle disposizioni di Lui, rispetto all’Italia, giacchè niuna cosa si mostrava più innocua al suo governo, che un’associazione, in cui i Piemontesi dietro lo stimolo del Cav. Panzoja tutti si proponevano di parlare costantemente l’italiano, e si sottomettevano ad un’imposta da passarsi ai poveri, ogni qual volta fossero colti in fallo, cioè a parlare il nostro dialetto, od altra lingua fuori di stretto bisogno. Tanto più che lo scopo era più letterario, che politico, e d’altronde il legame della lingua alla nazionalità non ha una forza sì energica, sì subitanea da spaventare chicchessia. E poi ignorate voi l’influenza del primo ministro, il Marchese Solaro della Margherita, il qualche oltre ad essere _gesuitissimo_ come sopra toccai, è ligio affatto all’Austria, e tanto che non lo si farà saltare dalla sua carica, impossibile sarà ogni simile divisamento. Del resto ammesso ciò, che non puossi ammettere giammai, cioè che Carlo Alberto volesse coadiuvare la nostra causa, e marciare alla testa delle sue truppe, che da qui a poco si raduneranno nella landa di S. Maurizio per servire di trastullo ai nostri Duchi, e prendesse a fugare il predone Tedesco dalle lombarde e venete terre, credete che l’italo paese guadagnerebbe sotto il governo Sardo? Sotto il giogo d’un dispotismo il più barbaro, sebbene mascherato dalla più artata apparenza? Sotto il comando di un re che per voler conservare, a maggior lustro della sua corte, l’etichetta spagnuola, conservò nella nobiltà la boria intollerabile di quella nazione, la barbarie e l’ignoranza la più maligna e la più crassa? Starebbe poco a rinascere il feudalismo, è vero modificato per imperio e necessità dei tempi, ma pur sempre tremendo feudalismo; e noi avremmo a soffrire fra breve quanto non soffrimmo sotto qualsiasi invasione, e quanto non soffriamo tuttora. Però che per quanto soggetti alli stranieri, bolversati, tiranneggiati, ed oppressi siano gli altri paesi d’Italia da’ suoi Principi, e dai suoi governi, sono sempre in istato meno passivo ed irritante di quello in cui si trovano i Piemontesi. Interrogate le persone colte ovvero quelle che intendono i loro diritti e non anco hanno rinunciato alla quistione dell’indipendenza italiana; chi di loro non s’espatrierebbe dal Piemonte, se vincoli d’impieghi, di parentado, dei loro interessi non li tenessero stretti ed inceppati? neppur uno per quanto possa essere caro il luogo dove s’abbia spirato le prime aure della vita, dove si sia visto per la prima volta la luce del giorno. Nè sarebbe inutile l’osservare che in numero grande si contano i Piemontesi, che continuamente s’espatriano volontariamente, e si recano ad abitare altri paesi aspettando un meglio avvenire per poi fare ritorno. Ma siccome non dobbiamo porre fiducia di sorta in Carlo Alberto, non dobbiamo neppure confidare nell’ajuto e nel concorso di verun’altro nostro principe, o degli stranieri; Siamo noi che di per noi stessi dobbiamo riedificare l’edificio della nostra nazionalità, e per niun’altra via potremo guadagnare il nostro intento, che per una generale sommossa, che per lo esterminio dei principi, e dei troni. La Francia come ridivenne nazione? come sorse ad incivilimento? a grandezza? se non collo spargere fiumane di sangue, se non colla sua lunga e terribile rivoluzione. Così dobbiam noi fare, così operare; ciò voi dovete o Azeglio predicare giorno e notte, tra i grandi e tra il popolo, se volete giovare all’Italia; a quest’opera dovete cercarvi collaboratori in continuo, perchè al primo manifestarsi del movimento tutti sorgano col braccio armato quegl’italiani, i quali non sono sordi alla voce dell’amore di patria, non sono anche del tutto imbastarditi dall’astuta tirannia dei nostri Signori, nè sì sviati dietro il male esempio da desiderare di essere piuttosto ingentiliti e corrotti, che resi saggi e virtuosi. È senza dubbio allora che potrete meritarvi la pubblica fiducia, la gratitudine dei vostri fratelli, la benedizione di tutti i buoni, che non avete di certo ora, che siete associato a Balbo, e d’un imbecille e malvagio volete far Carlo Alberto un Eroe. Questo per ora è quanto aveva in mente di scrivervi; di moltissime cose, che presentemente non ho stretto obbligo di palesarvi, altra fiata torrò a discorrervi; cioè quando mi si porga il destro, e possa crederle d’utile pubblico. Io vo’ sperare che rientrerete in voi, od almeno vi cesserete dal dare consigli ai vostri fratelli, i quali non solo non sono vantaggiosi, ma anzi tornano loro di danno immenso; seppure non volete ricredervi ed abbracciare il partito del vero Italiano, che dovrà sempre sdegnare ogni moderazione dove gli stia a cuore l’ottenimento della salvezza patria. Non vi faccia maraviglia, se io serbo l’anonimo, il vostro esempio mi ha istrutto se prima non lo fossi stato, e da qui ad un mese alla più tardi, rilasciando ancor io il beatissimo Piemonte, vi renderò avvertito con altra mia scrittura del mio nome, e vi proverò in effetto la mia stima, e se volete la mia affezione, tuttochè mi abbiate veduto in tante cose così discorde da Voi, da lanciarvi contro una amara, ma giusta rampogna. _Di Torino 7. Giugno 1846._ N. N. INDICE DELLE MATERIE _Alcune righe, a mo’ di lettera, che servono di prefazione al libro_ Pag. 3 _Osservazione prima sui governi d’Italia_ » 5 _Osservazione seconda sulla libertà di scrivere, di parlare e di manifestare la propria opinione sulla sorte futura d’Italia_ » 9 _Osservazione terza sul merito, che hanno gli Italiani per un meglio avvenire_ » 22 _Osservazione quarta sul bene, e sul male delle sommosse_ » 27 _Osservazione quinta sull’egoismo imputato agli Italiani pei disegni che fin’ora essi manifestarono_ » 34 _Osservazione sesta sulla condotta dei popoli Italiani e dei Principi, che li governano_ » 44 _Osservazione settima sulla ridicolezza d’una domanda al governo Papale di essere pe’ suoi sudditi più assoluto, e più dispotico_ » 49 _Osservazione ottava sull’inutilità delle proteste per migliorare la condizione degli Italiani_ » 55 _Capitolo unico sulle speranze d’Italia riposte in Carlo Alberto_ » 71 NOTE: [1] Lo scrittore della presente non andò errato nel suo pronostico, perocchè ci pervenne a notizia trovarsi già egli in Viareggio dopo d’essersi fermato alcuni giorni a Lucca dove per certi scrupoli non fu tollerato. [2] Vedi Mazzini nel suo ragguaglio sulla morte dei fratelli Bandiera. [3] V. _Pag._ 12. [4] Vedi pag. 114. dell’Azeglio. [5] Vedi Ricciardi nel suo libro _Gloria e Sventura_, Parigi coi tipi della signora _La Combe_. [6] Vedi pag. 115. fino al fine. [7] È vero che gl’Italiani in Inghilterra sono trattati ben altrimenti, e di Malta, lo posso accertare io, vengano essi consigliati a traslocarsi là, ed anche a spese del governo generosamente più che gratis condotti. [8] Vedi Ricciardi libro sulle _Speranze d’Italia_ Parigi 1846. [9] Quegli furono un certo Rossaroli ed un certo Ancillotti che preser parte nella congiura così detta del monaco, perchè ordita da un frate; i loro compagni conosciuti veri congiurati andarono tutti a morte, gli altri come sospetti in prigione a vita come loro. [10] Del Codice Sardo colle postille del Barbaroux, se ne è fatto un’edizione, che io stesso ebbi tra mano, e potei convincermi della cosa. Prati con un bel carme si fece interprete del dolore dei Piemontesi per l’improvvisa morte del Barbaroux, ma la revisione tutto glielo falcidiò. [11] _Via economica_ è un modo di far giustizia, in grazia di cui una persona di qualche credito incolpando un’altra, può aver la soddisfazione di vederla subito arrestata, castigata, senza che ella prima del termine del suo castigo possa sapere il motivo del suo arresto, far ricorsi di sorta per purgarsi dall’accusa, e far valere le sue ragioni, locchè qualche volta avendo protezioni vienle poi concesso dopo siccome un gran favore. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 76908 ***